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Il governo evoca la cessione delle quote di Mps. Ma i numeri del Tesoro non tornano

Mariarosaria Marchesano

Giorgetti si è spinto a rilanciare la prospettiva di Montepaschi come perno attorno al quale costituire “un polo bancario forte”. Eppure tutti gli obiettivi di riduzione del debito da parte del governo sono poco credibili

Sul tavolo del risiko bancario italiano, dove si stanno riaprendo i giochi dopo una lunga pausa, si registra la mossa decisiva di Unipol verso la Popolare di Sondrio, di cui ha quasi raggiunto la soglia sensibile del 20 per cento, che prelude alla creazione di un polo bancario del centro nord insieme con Bper. E’ la prova che quando le operazioni hanno un senso strategico e sono finalizzate a creare valore sono ben accolte dal mercato che attende i passi successivi per veder nascere un’aggregazione che ambisce a sfidare il duopolio di Intesa Sanpaolo e Unicredit nell’area più ricca del paese. Intanto, però, della possibilità di creare un terzo polo bancario in Italia è tornato a parlare, a sorpresa, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.

Mercoledì sera, durante la conferenza stampa sulla manovra economica, Giorgetti non solo ha tenuto a rivendicare la paternità della politica economica, dicendo che il “se” e il “quando” delle privatizzazioni, compresa Mps, le decide lui, ma si è spinto a rilanciare la prospettiva di Montepaschi come perno attorno al quale costituire “un polo bancario forte”.  Con quali partner, non si sa visto che, eliminato dallo scacchiere il gruppo Unipol-Bper-Sondrio, l’unico candidato possibile resterebbe Banco Bpm, il cui presidente, Massimo Tononi ha ribadito ieri, ancora una volta, di non essere interessato. Dell’ipotesi di un terzo polo che ruota intorno a Mps (privato o pubblico?) non si sentiva parlare dai governi Conte uno e due.

E questo perché, durante il governo Draghi, con Daniele Franco al Mef, la priorità è sempre stata data al percorso d’uscita dal capitale del Monte entro le scadenze concordate con l’Unione europea. Ma è proprio questo il punto. Palazzo Chigi non ha mai comunicato un nuovo termine per disfarsi del controllo della banca senese dopo le rinegoziazioni che sono avvenute con Bruxelles e anche la scadenza di giugno 2024 di cui si parla non è ufficiale. E Giorgetti vuol dare chiara l’impressione di non avere particolare fretta, diversamente dai colleghi di governo, Adolfo Urso e Antonio Tajani, i quali di recente hanno detto pubblicamente che la dismissione andrebbe accelerata.

Lavorare per riportare il Monte sul mercato è stato anche l’auspicio più volte espresso dalla premier Giorgia Meloni. Non che Giorgetti intenda andare in direzione opposta, si capisce, ma l’operazione, secondo l’orientamento che si è fatto largo nelle ultime settimane al Mef, confermato al Foglio dal sottosegretario Federico Freni in una recente intervista, non dovrebbe avvenire a scapito del bilancio dello stato che si è visto caricare anni fa Mps a oltre 6 euro per azione e adesso nel vale 2,4. Dunque, se da un lato gli analisti di mercato si continuano a interrogare su come e quando il Mef uscirà dalla banca, Giorgetti sembra non escludere del tutto altri tipi di opzione. 

Certamente, Mps è oggi una banca che si avvia a chiudere l’anno con 1 miliardo di utili, come ha preannunciato l’ad Luigi Lovaglio nella call con gli analisti dello scorso giugno. Cifra alla quale bisognerà sottrarre circa 120 milioni da versare allo stato azionista come tassa sugli extra profitti anche se questa verrà approvata nella sua ultima formulazione. Ma è stato proprio Lovaglio a ricordare, in un’ampia intervista a Class Cnbc, che seppure Mps oggi potrebbe avere la forza per camminare da sola le dimensioni contano per competere sul mercato. Basti pensare, dice in sintesi Lovaglio, che la somma della capitalizzazione delle prime cinque banche europee è inferiore a quella della prima banca americana. E le prime due banche italiane non sono ai vertici in Europa per capitalizzazione. “Quindi penso che un’operazione di consolidamento sia qualcosa che ci si possa aspettare”. Lovaglio non ha commentato la strategia di uscita del governo, ed è evidente che le discussioni su questo punto a Palazzo Chigi sono ancora aperte. Sembra esserci, però, secondo insistenti indiscrezioni di stampa, la volontà di collocare una prima tranche di capitale del 5-10 per cento a un prezzo scontato rispetto alle attuali quotazioni, ipotesi che martedì ha provocato uno scivolone del titolo in Borsa. L’obiettivo sarebbe semplicemente quello di fare cassa: stime di mercato parlano di un incasso potenziale per il governo fino a un massimo di 300-350 milioni, che, insieme con la tassa sugli extraprofitti, porterebbero gli introiti ottenibili dal Monte a circa 500 milioni.

Per delineare un disegno strategico c’è tempo e, intanto, si porta acqua al mulino della manovra economica e della riduzione del debito.

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