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L'editoriale del direttore

Il pagellone di metà estate dei ministri. Ecco i voti

Claudio Cerasa

Dieci mesi altalenanti, in cui Meloni ha spesso rimediato ai pasticci dei suoi. Vicepremier non pervenuti (come troppi altri). Ok Giorgetti e male Schillaci, Salvini da sei meno. Nordio rimandato a settembre

Sono passati dieci mesi dall’inizio del governo Meloni e in questi dieci mesi all’interno dell’esecutivo ad aver fatto notizia sono stati spesso più i ministri che il presidente del Consiglio. Le dinamiche ormai le conosciamo. Meloni dice A e Salvini dice B. La Russa fa una gaffe e Meloni ci mette una pezza. Lollobrigida fa una sparata e la Lega ci specula. Santanché viene attaccata e la Lega finge di difenderla. Nordio mostra i muscoli e la Lega suggerisce di non esagerare con i muscoli. Il governo approva una legge sulle banche, sugli extraprofitti, e il ministro competente, Giorgetti, non si presenta in conferenza stampa. La storia del governo Meloni, complice il ruolo poco incisivo svolto finora dall’opposizione, è una storia fatta non solo di polemiche a bassa intensità tra i partiti della coalizione ma anche di bisticci a volte spassosi tra i singoli ministri. Nel bene e nel male, i ministri sono stati i grandi protagonisti di questi dieci mesi. E non sono state poche le occasioni in cui Meloni si è ritrovata a dover fare la badante dei membri del proprio esecutivo, che in teoria dovrebbero proteggerla e che invece spesso l’hanno esposta a critiche, polemiche, aggressioni non sempre ingiustificate. Ma arrivati a questo punto della storia, e dell’azione di governo, può essere utile, complice la pax agostana, provare a mettere in fila quel che si può, quel che è stato fatto e quel che non è stato fatto e stilare un pagellone di mezza estate. Dicastero per dicastero. Ministro per ministro.

Andiamo con ordine. E iniziamo da loro. Dai due vicepremier. Antonio Tajani, ministro degli Esteri, e Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture. Come vicepremier, molti problemi. A Tajani, la scorsa settimana, non è stato neppure comunicato il contenuto del pacchetto dei provvedimenti portato in Consiglio dei ministri lunedì, pacchetto che comprendeva la famosa norma contro gli extraprofitti delle banche (che Tajani ha fortemente criticato proprio in un’intervista a questo giornale). A Salvini, finora, il ruolo di vicepremier è stato quasi scientificamente impedito e altrettanto scientificamente Meloni in questi mesi ha fatto di tutto per evitare di far guidare il Cdm a Salvini in sua assenza. Per entrambi il voto è: non classificato. Come ministri, invece, storia diversa. Da ministro degli Esteri, Tajani non ha commesso errori – anche se, come ricorda un suo collega al governo, i suoi viaggi all’estero vertono molto sul lato delle cerimonie e poco su quello degli affari: prima o poi qualcuno dovrà aprire una pagina Facebook intitolata “Tajani stringe mani – e può vantare anche di aver organizzato un importante incontro a Roma con i principali capi di stato africani. Da ministro delle Infrastrutture, pur essendo uno dei ministeri meno efficienti nell’implementazione del Pnrr, Salvini si è finora comportato bene. Ha messo in campo una visione (aprire più cantieri possibili). Ha individuato un sogno (sempre lo stesso: il ponte sullo Stretto). Ha individuato una priorità (il codice appalti). Ha collaborato bene con i suoi avversari (chiedere al governatore del Pd Giani, che lo adora; chiedere al sindaco del Pd di Milano, Sala; e chiedere al sindaco di Roma Roberto Gualtieri, anche lui del Pd, con cui Salvini lavora fianco a fianco per la Metro di Roma e per il prossimo Giubileo). Quando Salvini non si muove da influencer, da Fedez del governo, e quando non interviene su tutto quello che non gli compete, che comunque è un’attività che gli toglie il 50 per cento del suo tempo, Salvini incredibilmente funziona e tra i ministri da salvare c’è anche lui.

Non è da salvare invece – stiamo seguendo la lista dei ministri così come comunicati dal Quirinale il 22 ottobre – il ministro Luca Ciriani, rapporti con il Parlamento, che non è riuscito a evitare alla maggioranze alcune figuracce che passeranno alla storia (la maggioranza che finisce sotto sul Def, la Camera che vota un emendamento del Pd sul Def, la Camera che ancora approva per sbaglio un emendamento di Fratoianni sulla patrimoniale). Così come non è da salvare il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, semplicemente non pervenuto. Giudizio sospeso per il ministro Roberto Calderoli, ministro per le Autonomie, che finora ha messo l’autonomia al centro del dibattito pubblico solo in occasione delle elezioni, poco prima, e che sul tema non è riuscito a imporre un’agenda concreta, un obiettivo realistico, un’idea non divisiva, pur essendoci lo spazio per farlo. Voto sospeso anche per il ministro per il Sud Sebastiano Musumeci, ministro senza portafoglio, senza idee, senza obiettivi, senza visione. E voti sospesi anche per ministri che in questi mesi, nel bene e nel male, non hanno brillato (come Andrea Abodi e Alessandra Locatelli).

Voto negativo per Maria Elisabetta Alberti Casellati (sappiamo cosa state pensando: Casellati è ministro?) che aveva il compito di trasformare la riforma istituzionale in una bandiera di questo governo e che in dieci mesi è riuscita solo a prendere sul tema molte porte in faccia tanto dalla maggioranza quanto dall’opposizione pur essendoci un terreno fertile come il premierato per poter tentare una quadra).

Voto negativo per il ministro della Salute Orazio Schillaci, che in dieci mesi di governo non ha trovato una sola occasione per parlare in positivo dei vaccini, per dire una parola sulla vergogna della Commissione Covid, per intervenire sulle liste liste d’attesa e per trovare un modo per sostenere gli investimenti delle aziende farmaceutiche nel nostro paese.

Voto negativo anche per il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ministro delle Cerimonie come lo ha magnificamente definito il governatore campano Vincenzo De Luca, ministro armato di buone intenzioni regolarmente offuscate però dal desiderio poco prezzoliniano di mettere il ministero al servizio del proprio ego.

Voto negativo anche per il ministro dell’Università Anna Maria Bernini, ministro non divisivo ma senza agenda, senza visione e che si porta sulle spalle la responsabilità di non essere riuscita a implementare uno degli obiettivi del Pnrr, legato alla costruzione di nuovi alloggi universitari, il cui ritardo si trova all’origine della sospensione di una parte della terza rata del Pnrr, dal valore di 519 milioni, che l’Italia potrà però recuperare nella quarta rata (Bernini permettendo).

Voto positivo, nonostante tutto, invece, per il ministro Raffaele Fitto, ministro della Coesione e del Pnrr, che al netto dei ritardi accumulati in questi mesi (revisione del Pnrr presentata in ritardo, terza rata ricevuta in ritardo, ministeri impegnati sul Pnrr sferzati in ritardo) potrebbe ancora riuscire nell’obiettivo di non far perdere un euro di finanziamenti europei nel corso del 2023.

Voto positivo anche per il ministro Matteo Piantedosi, che dopo le incredibili uscite di Cutro (“I migranti partiti? Se io fossi stato in difficoltà non sarei mai partito perché sono stato educato alla responsabilità”) si è riscattato in positivo aiutando il governo a uscire dalla stagione della xenofobia, dell’odio contro le Ong, della guerra con l’Europa, e arrivando persino a dirsi favorevole a una revisione della Bossi-Fini.

Voto positivo anche per il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che come molti ministri del governo ha capito che la sovraesposizione mediatica può essere molto dannosa (“L’umiliazione serve per far crescere gli studenti”) e che da mesi sta cercando di fare quello che la sinistra non è riuscita a fare nei suoi numerosi anni al governo, ovverosia provare a migliorare economicamente la vita degli insegnanti (stanziati pochi mesi fa aumenti di stipendi medi mensili di 124,40 euro per gli insegnanti, di 96,72 euro per il personale Ata e di 197,50 euro per i direttori amministrativi).

Voto molto sfavorevole per il ministro Santanché, ministro del Turismo, ministro del Twiga, le cui opacità imprenditoriali rivelate da Report avrebbero dovuto da tempo indurla alle dimissioni.

Voto più che sufficiente invece per il ministro del Lavoro Daniela Calderone, ministro silenzioso, ministro poco esposto ma ministro che, pur essendo stata commissariata dal Cnel di Renato Brunetta sul tema del salario minimo, senza eccessivi clamori e senza scatenare rivolte sociali è riuscita nell’impresa non semplice di mantenere una promessa importante, la revisione del Reddito di cittadinanza, senza farne una bandierina ideologica.

Voto non positivo, dopo un inizio incoraggiante, per il ministro dello Sviluppo Adolfo Urso, che nelle ultime settimane ha messo in campo, più a parole che nei fatti, il proprio arsenale retorico, rivendicando la propria ostilità nei confronti delle grandi multinazionali, ingaggiando duelli senza senso con alcuni vettori aerei, mostrando indifferenza nei confronti dei temi legati alla concorrenza, tergiversando senza direzione su Ilva e presentando provvedimenti incomprensibili sul Made in Italy volti a tutelare non imprese industriali che cercano di stare sulla frontiera della tecnologia ma piccoli laboratori artigianali, in nome di una famigerata e inafferrabile difesa della sovranità degli italiani.

Voto positivo per il ministro Eugenia Roccella, ministro della Parità di genere, che finora il massimo della divisione sul suo ruolo l’ha registrata durante la presentazione non di una legge ma di un suo libro.

E voto positivo anche per il ministro della Difesa Guido Crosetto, che a parte le sue sparate contro la Bce, sparate iniziali, non ha sbagliato un colpo.

Voto in sospeso per il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, armato di buone intenzioni, desideroso di trovare una terza via sul clima tra il fondamentalismo di destra e di sinistra, ma che al momento rischia di essere ricordato solo per la sua gaffe di inizio governo (lui e il ministro Zangrillo, il 22 ottobre, avevano capito di essere l’uno ministro del dicastero dell’altro) e per la risposta lacrimevole all’ecoansia di un’attivista.

Voto positivo, nonostante le parole dissennate sulla sostituzione etnica, per il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida, gravemente inadeguato sul tema della carne sintetica (il governo ha vietato una cosa già vietata e ha creato le condizioni per far sì che quando la carne sintetica sarà disponibile sul mercato i consumatori italiani possano acquistarla solo dal mercato straniero) ma ben posizionato sia sul tema del libero scambio (ha cambiato idea sul Ceta: prima era contro, ora è a favore) e ben indirizzato anche sul fronte dei flussi migratori da accogliere (tra il 2023 e il 2025 potranno entrare in Italia legalmente 150 mila nuovi migranti: è la cifra più alta mai approvata da un governo italiano).

Resta il ministro Giancarlo Giorgetti, il ministro più importante del governo, che nei suoi primi dieci mesi ha portato a casa alcuni risultati importanti (una legge di Bilancio prudente, un accordo insperato con Lufthansa su Ita, un altro accordo importante con Kkr su Tim) ma che nelle ultime settimane ha dimostrato di non saper essere un argine di fronte alle uscite populiste del suo stesso governo (vedi il pacchetto nazional-peronista approvato lunedì scorso) e che nelle prossime settimane dovrà dimostrare di essere qualcosa di diverso da un ministro saponetta, in grado cioè di farsi da parte quando si tratta di raddrizzare l’azione di governo e capace di offrire una visione europeista, ambiziosa e concreta nella partita più importante dell’anno: la scrittura della prossima Finanziaria. Serve un’idea, serve un guizzo, serve qualcosa di sostanzioso, come si dice, per aiutare l’Italia a crescere, a creare lavoro, a stimolare i consumi, ad attrarre investimenti e a evitare che il governo di cui fa parte passi alla storia per aver sperperato l’eredità positiva del governo precedente di cui faceva parte. Un caro amico del ministro Giorgetti, che ha lavorato al suo fianco nella scorsa legislatura, sotto la garanzia dell’anonimato offre un suggerimento al ministro: “Giancarlo si faccia coraggio e dica quel che pensa: troppo comodo non farsi trovare e stare zitto quando non è d’accordo, anche quando gli svuotano un ministero che è una delle rare istituzioni pubbliche funzionanti nel paese. Non glielo ha ordinato nessuno di fare politica: se non se la sente di dire quello che pensa, di fare quello che sa fare, lasci perdere e si trovi un altro lavoro”. Finora, Giorgetti è promosso. Ma la prossima Finanziaria ci aiuterà a capire se oltre che parare i colpi il ministro riuscirà anche a segnare qualche punto. Ed essere solo una parafulmini non basterà più. Sintesi estrema. Quando i ministri del governo parlano, i danni si vedono. Quando lavorano, i risultati si contano. Non abbiamo, ci avrete fatto caso, parlato del ministro Carlo Nordio. E non lo abbiamo fatto perché la nostra valutazione è appesa a ciò che il ministro farà nelle prossime settimane. Le intenzioni sono ottime, il garantismo di Nordio fa godere ma finora il ministro è riuscito a dividere l’Italia senza fare nulla. C’è da sperare che quando inizierà a fare qualcosa oltre alle divisioni ci sarà anche qualche risultato. Finger crossed e buona fortuna.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.