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L'analisi

Su Tim poteva andare molto peggio

Stefano Cingolani

La nuova suddivisione dei mercati, la concorrenza, gli altri player e il futuro di Open Fiber. Il ministero dell’Economia entra con il 20 per cento, lasciando oltre due terzi al fondo americano Kkr. Il resto ad altri due soggetti pubblici: il fondo F2i e poi Cdp

Poteva andare peggio, molto peggio. Dal cilindro del governo poteva uscire la rete unica delle telecomunicazioni in mano allo stato, come aveva annunciato Alessio Butti. Invece, l’accordo di massima raggiunto da Giancarlo Giorgetti prevede che la società nella quale far confluire la rete fissa di Tim sia posseduta per oltre due terzi dal fondo americano Kkr. Il ministero dell’Economia entra con il 20 per cento, il resto ad altri due soggetti pubblici: il fondo F2i e poi Cdp – che entra con il 3 per cento soltanto, perché non solo è azionista di Tim con il 9,8 per cento, ma è già proprietaria del 60 per cento di Open Fiber, la rete rivale – mentre il resto è del fondo australiano Macquarie.

Il governo si riserva un ruolo “nelle scelte strategiche”, che in realtà poteva avere già grazie al golden power, ma il comando sarà nelle mani di Kkr che ci mette tra 11 e 13 miliardi di euro: il resto, cioè una decina di miliardi, sarà a debito. L’offerta infatti valuta la rete tra 21 e 23 miliardi di euro. Per ottenere un quinto del capitale il governo dovrà tirar fuori circa 2,5 miliardi, e potrà piazzare uno o due suoi uomini nel consiglio di amministrazione; ma se vale il vecchio articolo quinto secondo il quale chi ha i soldi ha vinto, comanderà il fondo creato da Kohlberg, Kravis e Roberts specializzato in leveraged buyout, cioè acquisizioni attraverso il debito, che divenne famoso nel 1989 con l’operazione Rjr Nabisco: “I barbari alle porte”. vennero chiamati nel bestseller di Bryan Burrough. 

Non è finita, sia chiaro: alla fine del mese il governo varerà un decreto ad hoc, poi a settembre saranno gli organismi dirigenti di Tim a valutare (tuttavia hanno già dato il via libera allo scorporo) e c’è l’ostacolo Vivendi. La compagnia di Vincent Bolloré, principale azionista con il 23,75 per cento, è sull’Aventino, vorrebbe spuntare molto di più, ma ora tace. La nuova società privata della rete esclude per il momento che si formi la mitica rete unica della quale si parla da una ventina d’anni. Tuttavia pone due dilemmi difficili da risolvere: il primo è quanto vale l’ex monopolista senza la rete, il secondo è che fine farà Open Fiber. 

Secondo una opinione molto diffusa, la Tim ormai più leggera, liberata dalla zavorra (politica oltre che finanziaria) della rete fissa, con meno debiti e dipendenti (vedremo quanti) potrà prendere il volo nell’universo dei servizi per i clienti, da quelli meno sofisticati alle nubi dei dati. Eppure, spiegano esperti del settore, deve farsi largo in un mercato affollato e molto competitivo, inoltre dovrà battersi con il coltello tra i denti per non perdere i grandi clienti, cioè le imprese, che sono parte fondamentale del suo business. Chi li prenderà? Forse Fastweb pioniera della fibra ottica, prima ancora che decolli la nuova società della rete? I servizi per il momento non sono in grado di compensare il volume d’affari rappresentato da questa clientela vip. Una bella sfida per la nuova Tim la quale a questo punto diventa meno interessante anche per il risiko europeo delle telecomunicazioni. Troppe compagnie per lo più nazionali si contendono un mercato che si contrae, mentre negli Usa Verizon e At&T si dividono il grosso dei clienti mobili, con Comcast e Time Warner che forniscono il grosso dei cavi; quindi avverrà una drastica concentrazione e le attuali resistenze sovraniste cadranno di fronte alla realtà dei numeri. 

In questo quadro, Open Fiber non ha un gran futuro. Oberata com’è di debiti (4,6 miliardi di euro nel 2022 e c’è chi prevede 6 miliardi quest’anno), è destinata a dividersi in due: da una parte le aree nere, le più redditizie che possono interessare al fondo Macquarie, dall’altra le zone bianche, quelle che non generano profitti e dovranno essere salvate da un oneroso intervento pubblico. Quanto alle grigie, si farà la conta di quelle più o meno convenienti. C’è anche un terzo scenario ipotizzato dalle nostre fonti. Kkr non è un investitore di lungo periodo, il suo orizzonte in media ha una prospettiva triennale. Forse impiegherà di più per valorizzare il capitale investito, ma non stiamo parlando di azionisti permanenti. Dunque il feuilleton della rete non è finito, appuntamento alla prossima puntata.