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Altro che soldi o commissari, in Romagna serve visione del futuro

Giulio Boccaletti

L’alluvione ha confermato che l’Italia è eccellente nel gestire l'emergenza ma ha problemi nella gestione della ricostruzione. Essere efficaci ha un valore in termini di crescita. economica. Serve rimettere a posto il territorio velocemente: la perdita potenziale è di 8 miliardi all’anno

La resilienza di un paese non si misura dalla capacità di evitare tutte le catastrofi. Quello non è dato a nessuno di prometterlo. La misura corretta è quella di essere in grado, quando le catastrofi succedono, di gestire l’emergenza ed effettuare la ricostruzione in modo efficace. L’alluvione in Romagna ha confermato che l’Italia è eccellente a gestire la prima. Invece effettuare la seconda, la ricostruzione, da settimane sembra essere un problema. Per ricostruire servono risorse, un piano su come usarle e un meccanismo per spenderle. Sul fatto che ci siano risorse non v’è dubbio. In due anni, il paese è riuscito a spendere sull’edilizia decine di miliardi a carico dello stato. Per quanto impegnative, le stime che stanno circolando per ricostruire in Romagna – intorno agli 8 miliardi – non dovrebbero far tremare i polsi, anche perché la Romagna, al contrario degli infissi, produce valore.

Certo, vanno fatte scelte. Le risorse finanziarie non sono infinite. Almeno su carta, però la scelta dovrebbe essere ovvia, anche per questo governo. Il pil della regione si aggira intorno ai 160 miliardi di euro, l’8 per cento del paese. Secondo le stime di Unioncamere, i 79 comuni alluvionati contribuiscono a quasi 40 miliardi di questi. Se è vero che si è perso circa il 20 per cento di infrastrutture produttive (incluso oltre il 40 per cento dei campi agricoli), stiamo parlando di 8 miliardi all’anno potenzialmente persi, fino al ripristino del territorio.

Questo governo si è convinto che investire circa 15 miliardi di euro per un ponte sullo stretto di Messina sia una buona idea. E’ il doppio della ricostruzione in Romagna. Se l’insularità della Sicilia, la cui economia è la metà di quella emiliana, costa alla regione il 10 per cento del pil annuale (stima ragionevole), stiamo parlando di 8 miliardi all’anno di benefici per il ponte. In altre parole, ricostruire la Romagna ha un rapporto benefici su costi che è il doppio rispetto al progetto simbolo del governo. Vale la pena farlo, quindi.

Si potrebbe obiettare che l’investimento dello stato non serve. Dopotutto, l’Emilia è regione ricca. Possono “fare da sé”. Ma quelle zone sono produttive grazie agli interventi storici dello stato. Se non fossero state fatte bonifiche, arginature, canali durante il Ventesimo secolo, la Romagna sarebbe ancora una zona economicamente depressa. La costruzione di quelle infrastrutture, da tempo ammortizzata, non grava sull’economia locale. Mettere sulle spalle della Romagna la loro ricostruzione significa azzopparne l’economia. E’ come se si dicesse alla Sicilia che, se il ponte serve, se lo paghi da sola visto che poi se lo potrà permettere. Sarebbe una sciocchezza. Le infrastrutture non sono il sintomo della ricchezza. Ne sono una causa.

Si potrebbe anche pensare che, dopotutto, gli impatti di queste catastrofi sono transienti. Lasciamo che facciano, che tanto si torna come prima. Falso. Alcuni anni fa, Solomon Hsiang, ricercatore a Berkeley, fece uno studio econometrico sull’impatto dei cicloni tropicali sulla crescita economica di paesi colpiti. Tra il 1950 e il 2008, 6.700 cicloni hanno colpito paesi ricchi e poveri. Il ricercatore ha dimostrato che i disastri hanno conseguenze strutturali sulla crescita del pil: i paesi si spostano su una traiettoria di crescita più bassa di quella che avevano prima, e l’effetto persiste per decenni.

I risultati di Hsiang sono empirici. Non offrono una teoria sul perché ciò succeda, né ricette su cosa fare. Una cosa mostrano, però: gli effetti sono minori per quei paesi, ricchi, che a fronte di eventi frequenti hanno sviluppato un’abitudine nel gestire la catastrofe e la ricostruzione. Ci si può adattare. Essere efficaci ha un valore in termini di crescita economica.

E qui torniamo alla storia romagnola. Il governo e la regione si comportano come automobilisti che, alterati dopo un incidente, litigano non sapendo come fare la constatazione amichevole dei danni. Il dibattito sembra essere sui soldi, ma non lo è. I soldi ci sono e la ragione per spenderli, anche secondo i parametri di questo governo, pure. Siamo invece incartati sul come farlo. Il governo chiede un piano di spesa dettagliato, sospettoso delle intenzioni dell’amministrazione regionale. La regione risponde che per fare questo piano serve un commissario, e sospetta che il governo non intervenga per calcolo elettorale. Sono polemiche indecorose, anche perché di questioni sostanziali da discutere ce ne sono.

Quando l’uragano Harvey colpì la contea di Harris in Texas nel 2017, causando 150 miliardi di dollari di danni e allagando 150.000 case, gli amministratori locali emisero due miliardi e mezzo di debito pubblico per contribuire ai costi della ricostruzione. Fatta l’emissione, ci si pose il problema di come spendere quei soldi. La questione rifletteva una realtà nazionale. Il governo americano stima che tempeste e alluvioni costeranno 50 miliardi di dollari all’anno, un terzo del quale sarà a carico dello stato. Spese di quelle dimensioni cominciano ad assomigliare meno a un intervento emergenziale e più a una manovra di bilancio, e richiede criteri di spesa solidi. L’approccio nella distribuzione dei fondi di emergenza in America si basa su un criterio del 1936, anno della prima legge sulle inondazioni: dare priorità agli interventi strettamente in base al solo rapporto fra costi e benefici. Ma nella contea di Harris, dove l’elettorato è fortemente polarizzato per reddito, seguire quel criterio alla lettera rischiava di creare problemi distribuzionali enormi. Per fare un esempio: con 10 milioni da spendere per rinforzare argini, un’applicazione semplicistica del criterio indurrebbe ad approvare l’intervento per difendere 10 case da un milione ciascuna, ma non per difendere 99 case da 100.000 dollari. Con questo criterio, dieci ricchi si salvano, 99 poveri no. E così gli amministratori della contea hanno modificato i criteri per includere obiettivi sociali e di sviluppo. I fondi di emergenza sono diventati politica economica e sociale.

Qui sta il nodo dell’adattamento a fenomeni meteo-climatici sempre più frequenti. Nei paesi come l’Italia, i soldi non sono il problema. E neanche lo è nominare il commissario. Il sospetto è che soldi e commissario siano una distrazione utile a ignorare l’elefante che emerge dall’esperienza del resto del mondo: per ricostruire il territorio in un mondo che cambia, per renderlo resiliente, bisogna saper descrivere il futuro. Senza sapere dove si sta andando è difficile costruire la strada per arrivarci. Finora del futuro si è parlato veramente poco. E così, come diceva Fitzgerald, “continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”, mentre la Romagna e il paese intero aspettano di sapere ciò che verrà. Fino a quando l’acqua tornerà a bussare alla nostra porta.

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