(foto Ansa)

Oltre i proclama

Il Cav. inintenzionale. Così ha vinto come imprenditore e fallito come politico

Alberto Mingardi

Il liberalismo sa che le conseguenze delle azioni, anche involontarie, contano di più del resto. Berlusconi è stata la prima grande occasione persa dell’Italia: ma pur fallendo come riformatore, ha comunque cambiato il paese

“Non dalla benevolenza del Cavaliere”. Una preoccupazione centrale del liberalismo è l’idea che le conseguenze inintenzionali delle azioni umane tendono a essere più importanti di quelle intenzionali. Questo vale con tutta probabilità anche per le conseguenze di Silvio Berlusconi e per il suo liberalismo. Berlusconi scende in campo nel 1994 e sfodera una scimitarra retorica che non si è mai vista. I partiti della Prima Repubblica, incluso quello “liberale”, da trent’anni giocano ad allargare il perimetro dello stato. Le inchieste di Milano e la percezione diffusa che la grande impresa pubblica sia stata il primo elemosiniere illecito hanno determinato un clima nuovo. Nel discorso con cui pose fine all’esperienza del suo governo e con cui sperava di recitare il de profundis per tutto un “sistema”, nel 1993, Giuliano Amato spiegava che “la degenerazione progressivamente intervenuta nei partiti italiani (…) è stata in realtà il ritorno alla progressiva amplificazione di una tendenza forte della storia italiana, che in quest’ultima era nata negli anni Venti e Trenta con l’organizzazione di quel partito”. “Il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso dell’istituzione pubblica nasce in Italia con il fascismo e ora viene meno. Non a caso nello stesso momento viene meno il regime economico fondato sull’impresa pubblica, che era nato negli anni 30. Si tratta di un regime economico e di un regime di partiti che attraversa, per certi aspetti, un cambiamento pur importante, fondamentalissimo, come il passaggio tra quel regime e la Repubblica, ma che ora viene meno”.

 

La Seconda Repubblica doveva essere proprio questo cambio di regime: basta col partito politico organizzato che compra consenso con la spesa pubblica e basta coi panettoni di stato. Silvio Berlusconi intuisce che questo non è un passaggio storico che si compia da sé, ma che esiste una domanda politica che spinge in quella direzione. Un elettorato che fino ad allora aveva votato per quale forze politiche moderate il cui destino è segnato, un po’ per abitudine e un po’ per anticomunismo. Non perché fosse convinto delle loro ricette economiche, forse più subite che gradite da quegli stessi elettori. Il luogo comune per cui gli italiani sono tutti anarchici, non amano pagare le tasse e passano col rosso diventa, con Berlusconi, il primo mattone di un liberalismo che non rifiuta quelli che ci sono stati raccontati per generazioni come i vizi nazionali, ma prova a farci leva. La Rivoluzione liberale è un alveare vizioso in cui anche la peggiore delle api fa qualcosa per il bene comune. Sul piano della comunicazione politica, il successo è travolgente. Sul piano dell’azione politica, meno. La promessa di allentare le briglie al paese sbiadisce nel tempo e diventa credibile come i voti matrimoniali di chi la ripete a ogni campagna elettorale. Nel ricordo di chi misura un governo sull’efficacia dei suoi provvedimenti. Berlusconi era e resterà la più grande occasione mancata di quel campionario di occasioni mancate che sono i primi ministri della Seconda Repubblica, da lui a Renzi a Draghi. I treni per le riforme restano sempre fermi in stazione. La colpa non è solo del macchinista, ma anche dell’assenza di un cast di livello da ingaggiare, di tecnici d’area e capaci che sappiano trasformare la libertà da slogan in una serie di proposte concrete.

 

Se dobbiamo valutare il liberalismo di Berlusconi sul nesso fra parole e fatti, fra dichiarazioni e riforme, insomma sulle sue conseguenze intenzionali, è il fallimento più bruciante della storia della Repubblica. Il più bruciante, perché l’unico sorretto da un consenso diffuso inimmaginabile, per quelle parole d’ordine, sia prima che dopo. Le conseguenze inintenzionali sono però tutt’altre. Se guardiamo a ciò che Berlusconi ha prodotto per tutti, mentre perseguiva esclusivamente il proprio l’interesse, la prima cosa che dobbiamo dire è che quando prometteva la rivoluzione liberale in verità l’aveva già fatta. Nel paese in cui i grandi nomi dell’industria privata provano a giocare con la televisione, e falliscono uno dopo l’altro, Berlusconi mette insieme un network di emittenti locali e gli impone un palinsesto nazionale. Dà scacco al monopolio pubblico, costruendo una sua concessionaria di pubblicità, che si presenta alle imprese private e offre lo stesso bacino di telespettatori a prezzi nettamente inferiori. Quel bacino di telespettatori cresce perché, libera da qualsiasi tensione pedagogica, la televisione commerciale cerca di offrire a chi guarda la televisione non ciò che altri ritengano bene che veda, ma ciò che immaginano che voglia. È l’apoteosi dell’economia di mercato: il genio imprenditoriale che quando vede un ostacolo studia come aggirarlo, la gara dei prezzi, il consumatore, finalmente, sovrano. La sua avventura imprenditoriale il Cavaliere l’affronta con collaboratori di prim’ordine ma l’intuizione di fondo è sua, come sua è l’energia sovrumana per realizzarla senza indietreggiare mai di un solo passo.

 

Fa ridere che oggi si parli di divellere egemonia culturale come se quella fosse una battaglia che si vince a colpi di consigli d’amministrazione dei musei. È una battaglia di simboli e si vince sul terreno dei simboli. Il luccichio della televisione commerciale era talmente potente che quando Berlusconi manda in onda “Dallas”, una serie che è il più stereotipato e spietato racconto del capitalismo, nella quale non c’è un imprenditore che sia meno che un perfetto delinquente, la “Succession” dell’epoca, la gente la guarda a occhi spalancati e sogna l’America capitalistica. Facendo il proprio interesse, diventando, in certi anni, l’uomo più ricco del paese e il primo editore d’Europa, Berlusconi libera la cultura, il cinema, l’informazione. Sotto certi aspetti, è proprio questa la prima tessera del domino che innesca le condizioni per il cambiamento di regime di cui si parla in quel discorso di Amato. All’inizio degli anni Novanta, l’Italia può stufarsi di essere il paese dei panettoni di stato perché, dopo troppo tempo, ha conosciuto di nuovo l’alternativa e l’alternativa è il mondo a colori della televisione commerciale. È sempre andato di moda dire che Berlusconi non poteva, in realtà, essere liberale perché “duopolista”. Ci si dimentica che quel “duopolio” fu conquistato con una guerriglia concorrenziale geniale e spietata ed è stato, anno dopo anno, difeso in una guerra di posizione contro l’azienda pubblica che maggior presa ha sul ceto politico italiano, oggi come ieri. Era un imprenditore quintessenzialmente italiano e piratesco, un bucaniere dell’etere? Non ha atteso pazientemente che cambiassero le norme, prima di lanciarsi nella sua avventura? E perché, Uber ha aspettato la liberalizzazione delle licenze dei taxi per muovere la sua sfida concorrenziale? Gli innovatori non aspettano quieti a bordo campo.

 

Anche da capo politico, gli effetti più importanti di Berlusconi vanno oltre le azioni e le strategie deliberate. In un certo senso, quelle parole che preludono alla discesa in campo, la preferenza per Fini contro Rutelli come sindaco di Roma (la storia è sempre beffarda e uno diventerà il più odiato degli alleati e l’altro il più apprezzato degli avversari), aprono un’altra fase di liberalizzazione del mondo delle idee. La sola esistenza di Berlusconi e lo sdoganamento della destra hanno liberato il racconto del nostro Novecento, legittimando approcci eccentrici. È vero che il Berlusconi editore, con l’esclusione del Giornale di Montanelli, non ha mai avuto molto interesse alla costruzione di una santabarbara ideologica. Ma ci sono cose di cui storici e giornalisti prestati alla storia hanno potuto parlare in larga misura perché, col semplice fatto di esserci, ha sgombrato il campo dai tabù. Dal discorso della pacificazione nazionale del Violante presidente della Camera al “Sangue dei vinti” di Pansa, il tentativo di arrivare a una memoria più equanime della guerra civile è impensabile, senza Berlusconi. Se di riforme liberali non ne ha fatte in prima persona, un’altra conseguenza inintenzionale del Cavaliere è stata la legislatura che ha affrontato da perdente, non mollando il suo seggiolone alla Bicamerale e preparando meticolosamente il proprio ritorno. Fra il 1996 e il 2001, la sinistra italiana provò a essere riformista anche perché dall’altra parte sospettava ci fosse un partito liberale di massa, e perché voleva tentare di dare una risposta diversa alle domande che Berlusconi legittimamente incarnava. I cinque anni successivi in parte risolsero questa illusione. A sinistra prevalse il gusto di odiare l’uomo che aveva rotto il giocattolo gramsciano e non aveva avuto la buona creanza di sostituirlo con nient’altro. Gli attacchi della magistratura consentirono di riportare il discorso pubblico sui più congeniali binari della questione morale. Il cambio di regime vaticinato da Amato non si realizzò mai per davvero e la rivoluzione liberale finì nel cestino dei sogni irrealizzabili, assieme ai balletti delle veline e ai premi in gettoni d’oro dei telequiz.

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