Liberista a metà

La “rivoluzione liberale” di Berlusconi è stata più imprenditoriale che politica

Luciano Capone

Nell'imprenditoria ha innovato e rotto monopoli: l’edilizia, la televisione, il calcio. Al governo ha mantenuto lo status quo: non ha alzato le tasse, ma non ha riformato, liberalizzato né privatizzato. Aveva capito che agli italiani la rivoluzione liberale piace a parole, ma non l'hanno mai voluta davvero

La discesa in campo di Silvio Berlusconi è legata alla “rivoluzione liberale”, sempre invocata e mai veramente perseguita. Ciò che proponeva agli italiani era un nuovo rapporto tra lo stato e i cittadini, un’economia diversa dalle partecipazioni statali, liberata dal peso delle tasse, del debito pubblico e del sistema dei partiti della Prima repubblica. Privatizzazioni, concorrenza, taglio della spesa pubblica e riduzione delle tasse. Una rivoluzione culturale e del linguaggio politico, che ha costretto anche la sinistra a evolversi rapidamente dopo la sorprendente sconfitta del 1994. Dal punto di vista pratico, però, il Berlusconi politico non è stato all’altezza delle sue promesse.

 

Eppure presentava delle credenziali molto forti. Da imprenditore era riuscito a farsi spazio in un’Italia dinamica ma in cui i ruoli e il potere nel sistema economico erano assegnati e ben presidiati dalle grandi famiglie, dai salotti buoni e dai partiti. E l’aveva fatto cercando i necessari appoggi politici, inevitabilmente in quel sistema corporativo, ma soprattutto attraverso intuizioni e innovazioni: prima l’edilizia residenziale con Milano Due, poi l’editoria, le televisioni private, la pubblicità, lo sport e la finanza. Berlusconi ha introdotto elementi di modernità in un paese che, dopo il miracolo economico, era in larga parte grigio e ingessato.

 

La televisione ne è l’esempio più clamoroso. Negli anni 70, mentre il resto del mondo occidentale aveva la tv a colori, gli italiani la guardavano ancora in bianco e nero. Per volontà politica. Perché i partiti la ritenevano un’innovazione “superflua”. Non solo il Pci, per cui la tv a colori era un “emblema di un tipo di sviluppo che è dannoso per i lavoratori e per la democrazia”, ma anche le forze laiche generalmente più favorevoli al mercato come il Pli e il Pri: Ugo La Malfa fu uno dei più strenui oppositori della tv a colori. In quello stesso periodo, metà anni 70, Berlusconi fiutò l’opportunità delle tv libere comprando Telemilano, la base del futuro impero Fininvest, e ruppe il monopolio nazionale della Rai attraverso il lampo di genio delle videocassette preregistrate e trasmesse dai vari ripetitori locali con una minima differenza di orario per aggirare il divieto d’interconnessione simultanea. Anche il dominio del calcio italiano in Europa, da fine anni 80 ai primi anni del Duemila, è figlio della rivoluzione impressa dal Milan di Berlusconi, simboleggiata dalla presentazione della squadra all’Arena Civica con l’arrivo in elicottero e la cavalcata delle Valchirie come colonna sonora in stile Apocalypse now.

 

Quando nasce Forza Italia, con Antonio Martino tessera numero due nel segno di Milton Friedman, ci sono tutti i presupposti per fare anche in Italia la “rivoluzione liberale” con una decina d’anni di ritardo rispetto a Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Stati Uniti. Serviranno molti anni, e tanti osservatori ancora non se ne sono accorti, prima di realizzare che l’azione politica di Berlusconi era un’altra cosa. C’è un episodio, forse marginale, che avrebbe potuto farlo capire prima, all’inizio della sua parabola politica. Nel 1994, durante la sua prima breve esperienza di governo, Berlusconi si trovò di fronte l’annosa e profonda crisi della Carbosulcis, l’azienda statale che sfruttava il bacino carbonifero del Sulcis in Sardegna. Si prospettava una situazione analoga, seppure su una scala d’intensità nettamente inferiore, all’estenuante braccio di ferro di metà anni 80 fra Thatcher e il leader del sindacato dei minatori Arthur Scargill, che uscì sconfitto dopo un anno di scioperi. I minatori sardi assediavano Palazzo Chigi, protetto da un cordone di poliziotti in assetto anti sommossa, ma Berlusconi non era la Lady di Ferro: uscì a incontrare i lavoratori, annunciando un decreto per salvare la Carbosulcis, ribaltando la posizione ferma del governo annunciata dal ministro leghista dell’Industria Vito Gnutti. Pochi giorni dopo Gnutti si faceva fotografare con l’elmetto insieme ai lavoratori in miniera e la Carbosulcis dopo 30 anni esiste ancora: ora è una società della regione che continua a perdere soldi con l’unico obiettivo di attuare un ultradecennale “Piano di chiusura”.

 

Anche i successivi 29 anni di attività politica di Berlusconi non sono stati all’altezza delle aspettative che aveva creato. Molta retorica “liberale”, una forte attenzione a non aumentare le tasse, ma poche riforme, liberalizzazioni e privatizzazioni unite a uno scarsissimo interesse alla riduzione del perimetro statale: negli anni dal 2001 al 2006, quando è tornato al governo con una solida maggioranza di centrodestra, Berlusconi ha bruciato sull’altare della spesa pubblica il “dividendo dell’euro” – ovvero la caduta della spesa per interessi grazie all’ingresso nella moneta unica – che avrebbe potuto ridurre e di molto il debito pubblico (come fece il Belgio). Fu anche per quell’occasione sprecata, quando nel 2011 piombò la crisi, che l’Italia si trovò in una condizione di fragilità e lui, tornato a Palazzo Chigi dopo la parentesi di Prodi dal 2006 al 2008, ne fu travolto.

 

Il paradosso è che le opposizioni – da sempre prigioniere dell’antiberlusconismo e delle parole del Cav. – per un trentennio hanno combattuto il liberismo immaginario di Berlusconi che questo paese non ha mai vissuto nella realtà. Dal canto suo Berlusconi, che da imprenditore ha modernizzato il paese e rotto i monopoli, giunto al governo ha sostanzialmente conservato lo status quo. Non solo perché ciò garantiva le sue conquiste imprenditoriali, ma perché da profondo conoscitore dei gusti del pubblico – prima come impresario televisivo e poi come leader politico – aveva capito che agli italiani la rivoluzione liberale piaceva a parole, ma non l’hanno mai voluta davvero.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali