Silvio Berlusconi ospite di "Porta a Porta" nel 2002 (Ansa)

La rivoluzione televisiva

La goduria dell'Italia che con il Cav. ha scoperto la libertà superando il monopolio tv

Andrea Minuz

“Ho capito che la televisione deve soprattutto avere ritmo, deve inchiodare lo spettatore”, dice Berlusconi nel 1980 a TeleMilano. Da lì incomincia un’altra storia del paese: una impresa e un trauma, l’ultimo tassello del boom economico

È il 10 gennaio del 1980 e negli studi di TeleMilano Silvio Berlusconi ha organizzato una conferenza stampa. In quel momento le tv private sono sinonimo di televendite sgangherate, filmetti zozzi, show pecorecci, e lui vuole presentare una nuova idea di network nazionale. “Quasi tutte le sere vedo i programmi della tv americana che mi faccio mandare dagli Stati Uniti”, spiega il Cav ai giornalisti, “e ho capito che la tv deve soprattutto avere ritmo, deve saper inchiodare lo spettatore”. Dieci mesi dopo inaugura Canale 5. Comincia un’altra storia d’Italia. Difficile dire se sia stato più accecante il berlusconismo come sogno o l’antiberlusconismo come totem e religione, ma la rivoluzione televisiva del Cav. resterà tra le grandi imprese immaginifiche del Novecento italiano. Impresa avventurosa, rocambolesca, leggendaria. La stessa euforia libertaria dei pionieri della digital revolution, ma con Mike Bongiorno e il Cav. al posto di Bill Gates e Steve Jobs. Di certo non si capisce granché dei nostri ultimi quarant’anni se non si parte da questa rivoluzione epocale. La possibilità, data a tutti e gratis, di accorciare le distanze tra la paternalistica tv di stato e la meravigliosa tv via cavo americana, quando da noi non si sapeva bene neanche cosa fosse questo “cavo”.

 

Chissà però per quante generazioni sentiremo parlare del “genocidio culturale” delle tivvù di Berlusconi, dell’imbarbarimento, del degrado morale, dello svuotamento di coscienze e altre malefatte a cascata. La fine del monopolio fu un trauma. La discesa in campo una tragedia collettiva per una buona metà degli italiani. La televisione l’alibi perfetto di ogni sconfitta politica. E poi questo paese è fatto così, sempre “fondato sul lavoro” finché il lavoro non diventa impresa, quindi impresa colossale e allora non è più lavoro ma sfruttamento, ruberia, corruttela, rapina, associazione a delinquere. Il “berlusconismo”, pure limitandosi a quello televisivo (che però è inseparabile da tutto il resto) lo si è sempre raccontato con la ferocia dell’odio ideologico o col sopracciglio alzato, raramente intuendone la portata epocale, necessaria, salvifica (come dice Orsina, in uno dei pochi libri sul Cav che vale la pena leggere, “quello berlusconiano è un universo tolemaico che è stato studiato quasi esclusivamente da fedelissimi seguaci di Copernico”).

 

Per dare un’idea a chi, beato lui, è venuto su con Netflix e la Playstation, ecco un palinsesto di RaiUno d’una qualsiasi domenica di fine anni Settanta dell’era pre-Cav: ore 11.00: Santa messa; ore 12.00: “La giungla retributiva” (rubrica d’attualità); ore 12.15: “Agricoltura domani”; nel pomeriggio scatenamento con “Discoring”, quindi “Cronaca di un tempo di una partita di serie A” (solo un tempo), poi il Telegiornale di stato, e in prime-time lo sceneggiato “I Demoni” di Dostoevskij, seguito dal late-night, “Tribuna sindacale: ospite la Cisnal”. Poi il monoscopio Rai, fisso, immobile, fino al giorno dopo. Nessuna alternativa. Niente telecomando. Niente second screen. Guardatevi bene da chi rimpiange la domenica sera con la Cisnal. Non c’è da fidarsi. Anche se a scuola mi hanno detto il contrario, e all’Università anche peggio, per me l’arrivo di Canale 5 è stato come lo sbarco in Normandia. Una liberazione. Un passaggio di consegne tra un’idea di cultura popolare fondata sul monopolio, dosata dall’alto, sospettosa del divertimento, e un’altra sintonizzata invece su sogni, bisogni e libertà del consumatore. E in questa capacità di espandersi in tutte le fasce di pubblico, mettendo insieme film di Pasolini con la pubblicità e “Ok il prezzo è giusto”, la tv di Berlusconi è stata a suo modo gramsciana. Lo si dice esagerando un po’, si capisce, ma c’è una coincidenza fatale: il 4 febbraio 1980 inizia “Dallas” su Canale 5 mentre sulla Rai va in onda l’ultima puntata della “Vita di Gramsci”, sceneggiato di Raffaele Maiello. Fate un po’ voi.

 

Le televisioni del Cav. sono state l’ultimo pezzo di boom economico che ci mancava. La tv in casa ce l’avevamo tutti. Ma non avevamo i canali. Una tv finalmente moderna, americana, colorata, spregiudicata, che ci catapultava fuori dai tetri anni Settanta (e solo per questo non si ringrazierà mai abbastanza il Cav.). Prima di consegnarla per sempre alla storia, è il momento dei doverosi ringraziamenti. Grazie per il Mundialito e “Twin-Peaks” in prima serata, grazie per Carmelo Bene al Costanzo Show e “I Bellissimi” di Rete4. Grazie per “Casa Vianello”, “La ruota della fortuna”, “Il pranzo è servito”, e grazie per “I puffi”, “Lady Oscar”, “La famiglia Bradford”, “Baywatch”, “I Robinson”, “Il mio amico Arnold”, grazie per “A-Team” e per “Hazard” che adesso è anche fuorilegge, e grazie per “Drive-In”, anche se a me non piaceva, non mi ha mai fatto ridere, ma ci voleva anche quello. Grazie per “Uccelli di Rovo”, anche da parte di mia nonna che se lo vedeva da sola in cucina a luci spente, come nella penombra del confessionale. Grazie per il Festivalbar dall’Arena di Verona, grazie per “Beautiful”, grazie per i “Telegatti” con De Niro, Senna, Michael Jackson, e Stallone seduto tra Andreotti e Rita Levi Montalcini o Sharon Stone sul palco con Castagna. Grazie per “Non è la Rai”, a mezzogiorno, in fascia protetta. Grazie per “Mai dire gol”. Grazie per Paolo Brosio inviato al Palazzo di Giustizia di Milano, e grazie per una “Poltrona per due”, su Italia Uno, ogni vigilia di Natale. Un film che non potrei vedere mai in nessuna piattaforma ma solo così, con Eddy Murphy doppiato da Tonino Accolla, e la pubblicità.

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