Giorgia Meloni (foto LaPresse / Palazzo Chighi / Filippo Attili)

L'editoriale del direttore

Meloni è pericolosa non per ciò che fa ma per ciò che non fa. Appunti per le opposizioni

Claudio Cerasa

L’èra del tecno-populismo italiano costringe i partiti avversari a un duro compromesso con la realtà: il governo della destra è minaccioso non per il suo tasso di estremismo, ma per l’inconcludenza sui dossier che contano

Pragmatico fuori e radicale dentro. La vittoria rotonda ottenuta dal centrodestra alle elezioni amministrative costringe gli osservatori a ragionare con urgenza intorno a un tema che promette di essere cruciale per provare a capire qualcosa di più sulla natura della coalizione di governo. Il tema è presto detto: a otto mesi dalla nascita dell’esecutivo, è ancora possibile descrivere l’operato di questa maggioranza limitandosi a utilizzare, per inquadrarla, vecchie e sbrigative definizioni come “sovranismo”, come “nazionalismo”, come “populismo” e come “post fascismo”? Nicolas Baverez, formidabile opinionista del Figaro, ha studiato il caso italiano e ha offerto una definizione della leadership meloniana sulla quale vale la pena riflettere: “Tecno-populismo”. L’Italia, scrive il Figaro, è governata da un tecno-populismo composto da due fattori predominanti. Da un lato, vi è una strategia economico-finanziaria molto prudente, che rispetta pienamente i parametri europei, e che ha permesso in questi mesi all’Italia, anche grazie alle posizioni espresse in politica estera, di essere ancora “uno dei pilastri delle democrazie occidentali”. Dall’altro lato, vi è invece una strategia di politica interna più ideologica, più demagogica, che facendo leva su alcune storiche battaglie della destra nazionalista, dalle pensioni all’immigrazione passando per gli occhiolini strizzati ai piccoli evasori, ha permesso alla destra di poter nascondere dietro lo sventolio di alcune bandierine le proprie svolte mainstream.

 

Pragmatico fuori e radicale dentro. La presenza di una leadership decisa a mettere in campo una forma più o meno sofisticata di tecno-populismo rende il centrodestra italiano un caso di studio unico in Europa e spiega sia la ragione per cui gli avversari faticano a prendere le misure a Meloni sia il motivo per cui il centrodestra è così ossessionato dalla narrazione della sua gesta. Il primo punto è evidente: gli avversari di Meloni, utilizzando contro la premier argomenti spesso appartenenti a un’altra era geologica, appaiono, al di fuori dalla propria bolla digitale, semplicemente lontani dalla realtà. Il secondo punto è più sottile: per evitare di rendere evidente l’aggiunta del prefisso “tecno” alla parola “populismo” è necessario trovare un modo per valorizzare al massimo, in ogni dove, in ogni programma, in ogni rete, in ogni canale, tutte le piccole bandierine piantate sul terreno. E quando si ha l’opportunità di avere un’opposizione non solo molto litigiosa ma anche decisa a confrontarsi con la maggioranza prevalentemente sulle bandierine il risultato è quello che abbiamo oggi di fronte a noi.

 

I nemici di Meloni incalzano Meloni sulle cose che lei non dice e che non fa. E la stessa Meloni per nascondere il fatto che non faccia più le cose che diceva un tempo cerca di trovare un modo urgente per far sì che nella nuova narrazione italiana venga valorizzato più il lato radicale che quello pragmatico della sua traiettoria. Dire che il governo Meloni non sia un governo populista sarebbe oggettivamente un azzardo. Ma non ragionare intorno a questa combinazione politica, pragmatici fuori e radicali dentro, significa, per gli avversari di Meloni, non volersi confrontare con la novità di una leadership in evoluzione, minacciosa non per quello che sta facendo, al di là delle bandierine, ma per quello che molto semplicemente potrebbe non fare. È minacciosa, la leadership di Meloni, non per il suo tasso di estremismo, ma per il suo tasso di inconcludenza sulle cose che contano. Sulla sua mancanza assoluta di visione sul Pnrr. Sulla sua mancanza assoluta di idee sulla crescita, sul lavoro. Sulla sua mancanza assoluta di progetti per la costruzione di un’Europa più forte, più integrata, più solidale. Lo spazio per un’opposizione c’è, esiste, ma lo spazio resterà ridotto se di fronte al modello “pragmatico fuori e radicale dentro” il centrosinistra continuerà a proporre un modello di dubbio successo: colorato fuori, ma vuoto dentro.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.