Roberto Cingolani (Ansa)

La nomina

Così Meloni s'è lasciata stregare da Cingolani. Ma è l'ultima di una lunga lista

Valerio Valentini

Le offerte di Conte per un posto da ministro già nel 2018, poi la proposta sul Ponte Morandi. La stima di Giorgetti, che ora se lo ritrova come avversario. L'epica del nuovo ad di Leonardo

Un po’ è stato disonesto. “Voglio tornare a fare lo scienziato”. Un po’, invece, no. Perché davvero Roberto Cingolani è convinto che a Leonardo soprattutto quello, serva: un capo che ne capisca di scienza. Ma non è su queste premesse che è nata, e ben prima che Mario Draghi lasciasse Palazzo Chigi, la sintonia con Giorgia Meloni. Che, a ben vedere, è solo l’ultima in ordine di tempo a essersi lasciata stregare dal fisico milanese, se è vero che perfino chi lo ha contestato più severamente, e cioè Giuseppe Conte, lo ha a lungo corteggiato: lo voleva ministro già nel 2018. La proposta era arrivata un po’ per caso. Il suo profilo piaceva a Casaleggio, nel Carroccio sapevano bene chi fosse: e così al dunque Conte glielo propose. “Ministro dell’Ambiente, che ne dici?”. Lui, Cingolani, cortesemente declinò: “Resto a fare il ricercatore”. E forse non dovette apparire troppo convincente, quella sua ritrosia, visto che il fu Avvocato del popolo provò a ingaggiarlo di nuovo, poco dopo. “Caro Roberto, perché non fai il commissario alla ricostruzione del Ponte Morandi?”. L’idea non era peregrina: Genova è una città che Cingolani conosce bene, per avervi lavorato, per quasi tre lustri, come direttore scientifico di quell’Istituto italiano di Tecnologia creato nel 2003 per volere, tra gli altri, dell’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, forse primo suo vero, e indefesso, estimatore nel mondo sovranista. Rifiutò di nuovo, ma con rilancio. Suggerendo cioè, a Conte, di nominare come commissario qualcuno che avesse potere reale sui processi  amministrativi: il sindaco Marco Bucci, ad esempio. La reazione di Conte, quel suo timore così esplicito che “se faccio commissario Bucci, poi i meriti della ricostruzione se li prende la destra”, come effettivamente poi è stato, segnò forse il primo attrito tra i due.

 

A Draghi invece no, non seppe sottrarsi. Soprattutto perché la telefonata decisiva per convincerlo ad accettare il trasferimento in quel grigio palazzone su Via Cristoforo Colombo arrivò, pare, dal Quirinale. E quindi forse c’è da crederci a chi dice, oggi, che Meloni, nei giorni in cui più forti si facevano le proteste dei suoi ministri sulla scelta di Cingolani come ad di Leonardo, abbia trovato proprio lassù, sul Colle, buone ragioni per tenere duro. Del resto è un po’ nel destino di Cingolani finire col contraddire le aspettative di chi vorrebbe accaparrarselo, mettergli addosso la propria etichetta. E così, un po’ come Conte, dopo averlo a lungo inseguito, finì col vederselo imposto con tanto di benedizione di Beppe Grillo (“Un Superministro grillino”, alè), ora anche un altro suo grande estimatore, e cioè Giancarlo Giorgetti, se lo ritrova quasi come un impaccio, come un imprevisto, sul suo cammino. Nella Lega erano tanti i suoi estimatori. A partire da Edoardo Rixi, per motivi di competenza territoriale, che più volte ne ha tessuto le lodi a Matteo Salvini (“Qui a Genova ha fatto cose egregie”). Giorgetti, ai tempi del governo Draghi, lo difendeva quasi sempre: specie quando a insidiare Cingolani era Dario Franceschini, in una lunga disputa durata oltre un anno, partita sulle questioni legate allo sblocco delle rinnovabili osteggiate dalle Soprintendenze del Mic e arrivata addirittura al vestiario, col capo delegazione del Pd che un giorno rimproverò al fisico prestato alla politica che in Cdm non si può stare in maniche di camicia, per di più arrotolate. E ora invece proprio Giorgetti è quello che forse più di tutti subisce l’impuntatura di Donna Giorgia su Cingolani, lui che in quel posto avrebbe preferito Lorenzo Mariani, attuale capo di Mbda.

 

Ma lei non ha sentito ragioni: “A Roberto glielo devo, con lui ho un accordo”. Accordo nato, in effetti, già nell’estate scorsa, quando il ministro battagliava a Bruxelles per il price cap e la futura premier – che già gli aveva mandato messaggi di sostegno durante la polemica contro gli “ambientalisti radical chic” che lo aveva visto involontario protagonista – dopo aver tentato invano di convincerlo a restare al suo posto, conveniva che fosse meglio svincolarlo, ma tenerselo come consulente. “Ha un approccio da vero patriota”, diceva di lui, quando lo sentiva riassumere il senso delle trattative, e lo vedeva risoluto nella necessità di tenere il punto, di mettere in minoranza i tedeschi. Per questo lo ha voluto: “Perché di lui mi fido”. Si fida, Meloni, al punto da aver fatto di tutto per disinnescare le tesi di chi descrive Cingolani poco avvezzo sul piano militare e diplomatico. A quanti, e tra questi anche lo stesso Giorgetti e Guido Crosetto, la esortavano a ripensarci, ha chiesto invece consigli per affiancargli qualcuno che potesse sostenerlo nei suoi possibili punti deboli. E’ così che è nata l’idea di nominare, come direttore generale di Leonardo, quel Mariani che era il suo rivale designato.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.