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fratelli di giavazzi

Governare con le nomine. Perché è meglio che Meloni vinca

Claudio Cerasa

Eni, Enel, Poste, Leonardo. E poi Terna. Cosa c’è in ballo politicamente sulle nomine? E cosa serve a Palazzo Chigi per usare il metodo Draghi? Ragioni per auspicare un trasversale all-in meloniano

Fratelli d’Italia o Fratelli di Giavazzi? E’ una partita di potere, ovvio, ed è la prima grande partita di questo genere che gioca Giorgia Meloni. Ma attorno al balletto delle nomine delle partecipate di stato, nomine che in buona parte si andranno a definire nella giornata di oggi, c’è molto altro. E c’è, prima di tutto, la radiografia di una leadership cruciale, che ci dice molto sul suo stato di salute, sui rapporti con gli alleati, sulle divisioni nel suo partito, sulle collaborazioni con gli avversari e sulla possibilità che un governo politico, come quello di Meloni, possa replicare sulle nomine un metodo simile a quello applicato dal suo predecessore. In sintesi: comanda Palazzo Chigi, e il resto conta poco.

 

Le nomine importanti, lo sapete, sono quelle che riguardano quattro giganti assoluti dell’economia italiana come Eni, Enel, Poste, Leonardo. La scadenza per la presentazione delle liste delle quotate è il 13 aprile per le prime assemblee (Poste) e il 15 aprile per le seconde (Leonardo, Eni ed Enel). Attorno a questo scacchiere, prima ancora di arrivare ai nomi, ci sono alcune partite politiche interessanti da mettere a fuoco e che riguardano prima di tutto i rapporti tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Il leader della Lega ha chiesto esplicitamente al presidente del Consiglio di avere un amministratore delegato di una delle quattro aziende di stato, e almeno una presidenza, e l’indicazione del più importante alleato di Fratelli d’Italia cozza con quella che fino a ieri è stata invece l’indicazione di Meloni: le scelte sugli amministratori delegati sono scelte personali del presidente del Consiglio, sono scelte che prescindono persino dagli equilibri presenti nel partito del capo del governo, e quelle scelte dovranno rispondere ad alcuni criteri che prescindono dagli equilibri di governo. E dunque, l’intenzione di Giorgia Meloni, come si sa, è confermare alla guida di Eni Claudio Descalzi, è confermare alla guida di Poste Matteo Del Fante, è promuovere alla guida di Enel Stefano Donnarumma, è scegliere l’ex ministro della Transizione del governo Draghi, Roberto Cingolani, alla guida di Leonardo ed è quella di scegliere Giuseppina Di Foggia alla guida di Terna, da dove si dovrebbe spostare Donnarumma.

  

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La logica è quella intravista finora nelle poche nomine con cui ha dovuto fare i conti Meloni: comanda Palazzo Chigi, come si è detto, e le volontà del premier hanno un peso maggiore rispetto ai capricci della coalizione. Finora, effettivamente, Meloni ha seguito un approccio pragmatico nelle scelte compiute. Ha confermato all’Agenzia delle entrate Ernesto Ruffini, nominato per la prima volta in quel ruolo da Matteo Renzi, nominato per la seconda volta in quel ruolo da Paolo Gentiloni e nominato per la terza volta in quel ruolo dal governo Conte II, dopo essere stato congedato brevemente dal Conte I. Ha confermato alla guida della Ragioneria dello stato Biagio Mazzotta, scelto nel 2019 per quel ruolo dal governo Conte I. Ha rimosso dal ruolo di direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, affidando quel ruolo a Riccardo Barbieri Hermitte, ma senza dargli la delega sul coordinamento delle partecipate di stato. Ha confermato il numero uno dei Servizi, Elisabetta Belloni, e lo stesso avrebbe voluto fare per la Rai, il cui amministratore delegato, Carlo Fuortes, scelto da Mario Draghi e particolarmente inviso alla maggioranza di centrodestra, rischia di essere presto sacrificato. Ha affidato la guida di Enav al presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia occidentale, Pasqualino Monti, considerato molto vicino a Fratelli d’Italia ma che in passato è stato molto vicino al governo Renzi e in particolar modo all’ex ministro Graziano Delrio. Ha offerto alla Lega uno strapuntino su Mps, confermando l’attuale amministratore delegato, Luigi Lovaglio, scelto un anno fa dal governo Draghi, e offrendo al partito di Salvini la presidenza del Monte, e scegliendo come presidente Nicola Maione, già consigliere della banca e scelto come presidente di Enav ai tempi del governo M5s-Lega (alla Lega è andato negli ultimi mesi anche l’ad di Rai Way, Roberto Cecatto, e il presidente di Gse, Gestore dei servizi energetici, la cui presidenza è stata affidata all’ex senatore leghista Paolo Arrigoni; a Forza Italia, al momento, è andata solo la presidenza di Enav, con l’avvocato di stato Alessandra Bruni).

   

L’approccio scelto finora lascerebbe intendere che Meloni è pronta a sfidare i suoi alleati, e i suoi compagni di partito, per mostrare di essere capace di non farsi influenzare da nessuno nelle scelte che contano. E se le previsioni dovessero essere confermate, se Meloni dovesse fare cinque su cinque, promuovendo un manager gradito in passato anche al Movimento 5 stelle (Donnarumma, che dai Cinque stelle venne scelto come capo di Acea), promuovendo un ex ministro del governo Draghi (Cingolani), confermando due super manager trasversali (Descalzi è stato scelto come capo dell’Eni per la prima volta da Matteo Renzi, nel 2014, Del Fante venne scelto come capo di Poste nel 2017 dal governo Gentiloni) e adottando un approccio non così diverso da quello messo in mostra da Draghi (e dal suo Gran visir delle nomine, e non solo, il professor Francesco Giavazzi), mostrerebbe di essere disposta a correre alcuni rischi.

Rischio numero uno: la reazione possibile della Lega, che in questo scenario sarebbe costretta ad accontentarsi di qualche presidenza.

Rischio numero due: bocciare il candidato suggerito dall’amico Guido Crosetto, Lorenzo Mariani, per la guida di Leonardo, offrendo ai suoi detrattori ulteriori elementi per alimentare i pettegolezzi sulle frizioni all’interno del suo partito (polemiche con Rampelli, polemiche con La Russa, non allineamento su questa partita con Crosetto).

Rischio numero tre: essere accusata dai suoi alleati di intelligenze non necessarie con gli avversari di un tempo.

 

L’all-in di Meloni è possibile, e potrebbe essere successivamente compensato con altre possibili nomine in arrivo come quelle legate a Consap, a Ita, a Rfi, a Sport e Salute, ad Amco, a Consip. Ma quella che oggi appare come una semplice e complicata partita di potere, una partita all’interno della quale si giocherà anche un pezzo della reputazione di Meloni, della sua capacità di essere in discontinuità con una vecchia destra nazionalista, della sua capacità di essere non troppo in discontinuità sulle partite che contano con il metodo di lavoro draghiano e della sua capacità di fronte alle sfide che contano di saper promuovere più le competenze che le appartenenze, è in realtà una sfida più grande, più politica, dove Meloni avrà l’occasione di dimostrare se dopo sei mesi di governo potrà permettersi o meno di rivolgersi ai suoi alleati con lo sguardo fermo di chi ha tutta l’intenzione di ricordare che sulle partite che contano la linea è una e soltanto una, anche a costo di far apparire i suoi Fratelli d’Italia come una succursale politica dei Fratelli di Giavazzi: grazie di tutto, amici, ma qui comando io. Viva l’all-in di Meloni.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.