Foto di Sergey Dolzhenko, via Ansa 

Il commento

Meloni meglio del previsto, in Italia e all'estero. La romanità concilia, rassicura, addomestica tutto

Andrea Minuz

La premier si riprende lo spazio vacante del romanesco nazional-popolare. Va in Ucraina, si commuove, fa la paladina della libertà. In patria è capace di cavarsela e "buttarla in caciara". Doti che la presidente non deve invidiare nemmeno a Mario Draghi

Meloni rassicura Zelensky. Meloni rassicura l’Europa. Meloni rassicura la Nato, gli Stati Uniti, i mercati e gli aspiranti leader del Pd. È “capace”, diceva Bonaccini, quindi non solo legittimata dalle urne, ma abile e arruolabile (e capace non “in quanto donna” ma “nonostante sia di destra”, che è più difficile). Passati i primi cento giorni, dopo averla vista con un certo orgoglio a Kyiv, bisogna pur domandarselo: perché Giorgia Meloni non fa paura come avrebbe dovuto? D’estate si era a un passo dall’Apocalisse. La democrazia a rischio, i diritti già negati, l’aborto nelle Marche peggio che in Texas, il fascismo tutto compreso che rientrava in pista alla grande.

 

Anche all’estero seguivano con apprensione. L’amico francese o americano o norvegese ci domandava come al solito: ma com’è possibile, ma che succede? Continuerai a vivere in Italia? Si restava sul vago, che vuoi farci, vedremo. “L’amore degli italiani per Meloni sarà fugace come una scorreggia”, diceva il Süddeutsche Zeitung. Sottotitolo: “Come l’Italia si autodistrugge e trascina l’Europa con sé”. L’articolo è invecchiato male. Bisogna distinguere tra un’immagine internazionale di Giorgia Meloni, che sta andando meglio del previsto, anche perché si veniva dall’aplomb cosmopolita di Mario Draghi e non era facile (però anche lei va a mangiare i crudi di pesce a Anzio, proprio come Draghi) e Meloni fenomeno sociale in Italia.

 

Qui si era forse sopravvalutato il fascismo e assai sottovalutata la romanità, la Garbatella, la gran molla dell’identificazione collettiva con quel fraseggio, la camminata pimpante, la mimica facciale, lo sbracciarsi ampio, popolare, grintoso. Meloni non fa paura perché l’abbiamo in fondo già vista mille volte. È Alberto Sordi quando, nel discorso alla Camera, interrompe l’affondo risorgimentale e carducciano sulla Patria per riprendere fiato, “gnaa faccio, ’sto a mori’”, e naturalmente il fuorionda vale ben più del proclama (tanto a quello, come ha scritto Giuliano Ferrara, “nun ce se crede”). Meloni va in Ucraina, si commuove a Bucha, usa toni e modi alla Thatcher, quindi paladina della libertà, scelta netta, con voi fino alla fine, senza se e senza ma.

 

Ma quando Zelensky affonda su Berlusconi, fissa un punto lontano, oltre l’infinito, l’occhio a palla, lo stesso sguardo bloccato di Mimmo/Verdone, “in che senzo?” Meloni è repertorio condiviso. È lessico comune. Un po’ commedia all’italiana, un po’ Garbatella dei “Cesaroni”. In un momento in cui l’immaginario del paese passa più che altro da Milano, coi Ferragnez e la trap, o da Napoli, coi film e le serie da Sorrentino e Martone a “Mare fuori”, Meloni si riprende lo spazio vacante del romanesco nazional-popolare. La storia, le radici, l’“Heimat” di questo paese canagliesco e sfilacciato. E c’è poco da fare, la romanità unisce, concilia, rassicura, addomestica tutto, lì dove per esempio la toscanità divide (era, lo si è detto sempre, il grande problema di Renzi). 

 

“Il suo tempo è lineare o circolare?” le chiedono alla conferenza stampa di fine anno. “Per non tradire il fatto di non aver capito la domanda”, risponde Meloni, “dirò che è cadenzato, così la buttiamo in caciara”. “Buttarla in caciara”, a Roma, non è ammissione di debolezza ma arte, tecnica, know-how di sopravvivenza e funambolismo. Meloni disintegra anche col romanesco il fronte antifascista che era pronto a darle battaglia (persino Santoro, l’altra sera da Floris, non sembrava così contrario, ce l’aveva più con Zelensky che con Meloni). Le libere uscite dal protocollo istituzionale del Cav. erano troppo da caserma, troppo unisex, da gita delle medie, come le corna a Bruxelles. Mancava la parte romanesco-rassicurante che livella tutto, come Giovanni Paolo II che si prendeva la piazza andando a braccio, “semo romani, damose da fa’, volemose bene”. Persino Draghi toccò il picco di popolarità con quel “’ndo stai” rivolto a Donnarumma alla premiazione della Nazionale. È un punto della famosa “agenda” su cui Giorgia può fare anche meglio di Mario.

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