Foto di Roberto Monaldo, via LaPresse 

Il commento

Le regionali costringeranno Meloni e Salvini a competere sull'agenda dei doveri

Claudio Cerasa

Nonostante l'incoerenza della premier nei primi cento giorni di governo, gli elettori hanno premiato FdI. E anche la svolta moderata della Lega non è stata bocciata. È la dimostrazione che chi vota apprezza un'offerta diversa da quella populista 

Il bello delle elezioni locali, comprese quelle regionali, è che ciascun osservatore e ciascun politico può osservare ogni tornata elettorale con la stessa posa con cui gli aruspici scrutavano il volo degli uccelli. Ciascuno ci può dunque leggere, nel volo dei flussi elettorali, più o meno quello che vuole, quello che crede, a prescindere dall’evidenza, e ciascuno può così utilizzare i numeri di quelle elezioni, a prescindere dai dati di realtà, per provare a dimostrare, con forza, la bontà delle proprie tesi, comprese quelle più scombinate, comprese quelle di chi, con sguardo severo, è pronto a considerare il dato dei non votanti più importante rispetto a quello dei votanti, cosa che di solito succede quando qualche osservatore cerca di minimizzare un risultato elettorale che non gradisce.

 

Il bello delle elezioni locali, dunque, è che ognuno può sostenere la tesi che crede, compresa quella di non aver perso le elezioni anche in presenza di sconfitte rotonde, come per esempio ha fatto in queste ore il Pd, che certamente ha ottenuto un risultato migliore rispetto a quello dei suoi alleati, ma che comunque ha perso due regioni su due, senza lottare, costruendo alleanze senza senso logico, e sappiamo bene che la tesi che stiamo per esporvi potrebbe rientrare all’interno di questa categoria: wishful thinking, oh yes. Eppure, tra le molte analisi circolate in queste ore relative ai successi meloniani in Lombardia e nel Lazio, vi è un aspetto che è stato misteriosamente trascurato e che riguarda un segnale difficilmente equivocabile arrivato dalle elezioni regionali: il segnale di apprezzamento che gli elettori hanno inviato ai partiti desiderosi di offrire al paese un’agenda diversa rispetto a quella populista.

 

Ha detto ieri alla Stampa la brava Alessandra Ghisleri, regina dei sondaggisti, che gli elettori hanno premiato “la coerenza di Meloni”. Ma se si osserva il modo in cui Meloni ha governato nei suoi primi cento giorni, tra continuità con il governo Draghi, discontinuità con il passato del centrodestra, responsabilità sul debito pubblico, saggezza sul Pnrr, verrebbe da dire che gli elettori di Lazio e Lombardia, quelli che hanno spinto Fratelli d’Italia nel primo caso a un passo dal 34 per cento e nel secondo caso al 25 per cento, hanno premiato, oltre che i candidati scelti dalle coalizioni, anche l’incoerenza di Meloni, che guidata dal pragmatismo ha imposto al centrodestra di governo alcune traiettorie impensabili fino a qualche mese fa. 

 

Meloni ha dunque vinto le elezioni regionali non grazie alla sua coerenza ma nonostante la sua incoerenza, nonostante i suoi tentativi, sui grandi temi, dalla politica economica alla politica estera, di emanciparsi dall’agenda populista del centrodestra, riuscendo a essere su diverse partite un argine anche al populismo della sua stessa coalizione, e a volte anche del suo stesso partito. E il fatto che, negli stessi mesi, gli elettori abbiano scelto di premiare, o comunque di non bocciare, anche la svolta moderata di Salvini, che Sanremo a parte nei primi tre mesi di governo ha scelto di occuparsi prevalentemente di cantieri, senza eccessive sbandate estremiste, è un segnale ulteriore che indica una direzione non scontata ma possibile: la consapevolezza, tra i principali attori di governo, compresa Forza Italia, che a parte le sbandate su Zelensky del Cav. ha continuato a interpretare il ruolo di partito moderato della coalizione, che la linea della moderazione paga e che la competizione del futuro, all’interno della coalizione, sarà tra chi riuscirà a mostrare o no dimestichezza con l’agenda dei doveri dell’Italia.

 

Stesso discorso, se ci si riflette un attimo, anche per le opposizioni, dove il Pd, di fronte a un Movimento 5 (per cento) stelle che soffre almeno quanto soffre il così detto Terzo (o forse quinto) polo, oggi sa che non ha altra strada di fronte a sé se non quella di essere il partito perno, il partito pivot, della necessaria coalizione che dovrà nascere, un giorno, per offrire un’alternativa al centrodestra, e che dovrà trovare un modo per smussare gli angoli, per non assecondare gli estremi e per garantire al Pd una posizione centrale (e se il Terzo polo crescerà ancora, da qui alle europee, cosa possibile, tanto di guadagnato, per costruire una coalizione capace di avere un futuro).

 

Le regionali ci hanno offerto molti spunti di riflessione, alcuni utili per il bar sport altri nemmeno per quello, ma uno spunto che varrebbe la pena considerare è quello che riguarda un doppio messaggio inviato dagli elettori all’opposizione e al governo: mettere da parte l’agenda populista non solo è cosa buona e giusta ma è l’unica strada possibile per governare l’Italia, per guidare le proprie coalizioni e non perdere consenso. Tutto sommato, non male, no?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.