Aboubakar Soumahoro (LaPresse)

L'analisi

Accoglienza all'italiana, da risorsa ad anomalia. Lezioni dal “caso Soumahoro”

Luca Gambardella

Da Medihospes a Mafia Capitale. Il sistema di asilo dei migranti poteva essere una risorsa, ma ha perso credibilità. Colpa di alcune cooperative, ma anche di scelte politiche dubbie

Tra il 2017 e il 2022 la prefettura di Latina invia decine e decine di ispezioni per vigilare sulla cooperativa Karibu e sul Consorzio Aid, responsabili dell’accoglienza di migliaia di richiedenti asilo e rifugiati nei Cas – Centri di accoglienza straordinaria – della provincia pontina. Fondata da Marie Thérèse Mukamitsindo, la suocera del deputato Aboubakar Soumahoro oggi indagata per truffa e false fatturazioni, alla cooperativa sono state comminate multe per un totale di 491 mila euro, secondo quanto confermato lo scorso 28 novembre in un question time alla Camera dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Nonostante le irregolarità appurate – i mancati pagamenti degli stipendi ai dipendenti e le cattive condizioni in cui avrebbe ospitato alcuni richiedenti asilo – la cooperativa e il consorzio sono rimasti operativi per anni, fruendo di milioni di euro. Incaricata di vigilare sull’operato del Cas è proprio la prefettura, che risponde direttamente al ministero dell’Interno. Responsabile del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale è, all’epoca dei fatti, il prefetto Michele Di Bari che nel dicembre del 2021 è costretto a rassegnare le dimissioni. Il motivo è il coinvolgimento di sua moglie, l’imprenditrice Rosalba Livrerio Bisceglia, nell’inchiesta “Terra rossa”, condotta dalla questura di Foggia e che la vede tutt’oggi indagata per un sistema di caporalato in Puglia.


Oggi, sui fatti relativi alla Karibu, Di Bari preferisce non rispondere: “Non ricordo”, dice al Foglio, anche perché “si mandavano tantissime circolari”. Poco male, perché nel frattempo, a distanza di un anno, il prefetto è rientrato nel giro. In uno dei suoi primi atti da neoministro dell’Interno, Matteo Piantedosi l’ha nominato a capo della Struttura di missione antimafia sisma 2016, a vigilare su eventuali infiltrazioni mafiose nella ricostruzione dopo il terremoto nel Centro Italia. In un giro infinito fatto di sospetti, procedimenti penali e scelte politiche opinabili, buona parte del sistema dell’accoglienza dei migranti soffre di un problema di credibilità ed efficienza. L’anomalia ne è diventata la quintessenza, l’incongruenza si è tramutata nella prassi. E secondo la medesima logica, tanto il controllore quanto il controllato, al netto del dovuto garantismo, finiscono ciclicamente al centro delle attenzioni delle procure. 

Lo chiamano il “business dell’accoglienza”. “Ma io preferisco chiamarlo il ‘business sulle spalle dell’accoglienza’”, dice al Foglio Fabrizio Coresi, Programme Expert on Migration di ActionAid, che ogni anno, insieme a Openpolis, pubblica un rapporto con tutti i dati che riguardano il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) e i Centri di accoglienza straordinaria (Cas). In teoria, l’onere di pubblicare questi dati spetterebbe al governo, ogni anno e nel mese di giugno. Invece, l’ultima relazione a firma di Luciana Lamorgese e sottoposta al Senato è stata pubblicata solo da pochi giorni, dopo un silenzio durato circa due anni, e riporta i vecchi dati del 2020. La prima, invece, è datata 2018, quando al Viminale c’era Matteo Salvini. “A riprova della mancanza di trasparenza dei governi in tema di accoglienza, basti pensare che quell’anno il testo fu presentato al Parlamento il 14 agosto, una data non casuale, quando gran parte di deputati e giornalisti è altrove”, spiega Coresi.

In quel dossier, a tre anni da Mafia Capitale e dall’inchiesta che aveva puntato i riflettori sulle cooperative impegnate nell’accoglienza, Salvini scrisse parole profetiche: “Le concentrazioni di migranti, accolti in un’unica grande struttura, rendono difficile la gestione del centro con effetti negativi sia sull’efficienza dei servizi forniti ai migranti, sia sulle collettività locali, sia infine per l’eventuale rischio di attirare interessi economici degli ambienti criminali”. Ma nel giro di un paio di mesi, lo stesso Salvini propose il suo primo decreto “Sicurezza”, il provvedimento che più di tutti ha favorito il moltiplicarsi di quelle “grandi strutture” che il segretario della Lega stigmatizzava. Basta guardare oggi alla realtà romana, dove l’83,5 per cento dei posti di accoglienza è offerto da grandi centri che gestiscono migliaia di richiedenti asilo, lasciando le briciole alle strutture più piccole. 
 

Il decreto “Sicurezza” ha favorito il moltiplicarsi delle “grandi strutture” che lo stesso Salvini stigmatizzava

 

Il decreto di Salvini abolì gli Sprar, sostituiti dal cosiddetto Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) antesignano dell’odierno Sai, limitandone però l’accesso a chi aveva già ottenuto asilo politico. Tutti gli altri, i richiedenti asilo e i beneficiari di protezione sussidiaria, furono deviati verso i Cas che, da quel momento, hanno abbandonato la loro vocazione straordinaria diventando la struttura ordinaria per l’accoglienza. Inoltre, con una delle iniziative spot di Salvini, cioè il taglio a 21 euro dei famosi 35 euro al giorno per migrante, si diminuì in modo consistente la qualità dei servizi offerti. “Di fatto l’assistenza legale, linguistica, psicologica, così come l’intermediazione culturale, sono state tagliate con danni notevoli anche per l’indotto”, spiega Caterina Bove, avvocata dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. Per Coresi, “gli unici che oggi riescono ancora a lavorare nel settore dell’accoglienza sono le grandi organizzazioni, quelle in grado di offrire economie di scala, con bassi costi e alta efficienza. Le altre realtà più piccole hanno chiuso o si sono tirate indietro. Con il risultato che gran parte delle gare d’appalto per progetti di accoglienza vanno deserte e che il governo lamenta una continua situazione emergenziale, giustificando così il ricorso ai Cas”. Ed è proprio il taglio ai servizi ai richiedenti asilo ad avere contribuito a creare zone d’ombra nel sistema di accoglienza. “Con il decreto di Salvini si è andati verso una media di un operatore ogni 50 persone. Operatori relegati peraltro a un mero servizio di guardania”, dice Gianfranco Schiavone presidente del Consorzio italiano di solidarietà. “Il messaggio che il governo dava al settore dei Cas era chiaro: ‘Noi vi diamo poco, voi fate pure il meno possibile, tanto non esageriamo con i controlli’. E’ un messaggio culturale. Come puoi pretendere un servizio dignitoso di integrazione se è lo stato per primo a richiederne uno scadente?”. 

 

“Come pretendere un servizio dignitoso di integrazione se è lo stato stesso a richiederne uno scadente?”

 

Facciamo un salto indietro. Nel 2015 a Roma, l’inchiesta del procuratore Giuseppe Pignatone, denominata Mafia Capitale, svela un sistema fatto di appalti pilotati che coinvolge anche il mondo dell’accoglienza e delle cooperative. “Di fatto, quel sistema è incredibilmente in piedi ancora oggi”, dice Coresi. E’ il caso di Medihospes, il gigante del settore che fino al 2020 gestiva il 63 per cento di tutti i posti di accoglienza straordinaria a Roma, l’equivalente di circa 3 mila persone. La crescita di questo gruppo è stata esponenziale negli ultimi anni e, secondo i dati della camera di commercio, il fatturato è passato da 42 milioni nel 2016 a 114 nel 2018. Medihospes, presieduta da Camillo Aceto, aveva condiviso alcuni suoi dipendenti con il gruppo La Cascina, cooperativa commissariata per il rischio di infiltrazioni mafiose proprio nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale. “Non solo, le due cooperative condividevano pure le sedi, le iniziative promozionali e gli appoggi politici”, continua Coresi. Due di quelle coinvolte nell’inchiesta – la Domus Caritatis, riconducibile all’Arciconfraternina del Ss Sacramento e del Trifone, e La Cascina, vicina a Comunione e liberazione – sono confluite sotto il gruppo Tre fontane, inglobato poi proprio da Medihospes. Con un sistema di scatole cinesi, gli stessi protagonisti sono rimasti a spartirsi le quote dell’accoglienza nella Capitale. “Al punto che ormai i numeri sono talmente grandi che la stessa prefettura è ostaggio della cooperativa”, dice il Project Manager di ActionAid. In altre parole, oggi per lo stato sarebbe più costoso smantellare questo sistema poco trasparente piuttosto che mantenere lo status quo.  

 

Quello di Mediohospes è un nome che ricorre spesso anche lontano da Roma, ovunque ci sia a che fare con grandi numeri di richiedenti asilo. Nel 2017, la Senis Hospes, altra cooperativa che fa capo ad Aceto, vince un appalto per la gestione del Cara di Borgo Mezzanone, nella Capitanata. La base d’asta della prefettura di Foggia parte da 35 euro al giorno per migrante e la Senis Hospes riesce a vincere l’appalto con un’offerta al ribasso di soli 22 euro. Ma con un capitolato di spesa ridotto all’osso, i servizi offerti dalla cooperativa – dalla sicurezza all’assistenza sanitaria – sono talmente bassi da convincere la prefettura a rimuovere il progetto alla cooperativa già nel 2018. Questo non ha impedito ad Aceto di diventare il deus ex machina del settore dell’accoglienza, aggiudicandosi altre decine di appalti a Roma ma non solo, come vedremo, con relativi milioni provenienti dal ministero dell’Interno. 

La soluzione ordinaria quando si parla di accoglienza, si diceva, dovrebbe essere in teoria quella del Sai, gli ex Sprar per intenderci. “Sarebbe il sistema ‘giusto’ – spiega l’avvocata Bove – Quello che prevede tutte le forme di assistenza attraverso i comuni, che decidono su base volontaria di ospitare una quota di richiedenti asilo o rifugiati e subappaltando questi progetti”. Per Matteo Biffoni, delegato Anci per l’immigrazione, “si tratta di una forma di investimento, perché permette di formare dei cittadini, di creare capitale umano”. Dopo l’èra Salvini, che aveva ridotto fortemente il ricorso al sistema Sai, ora il modello è in ripresa. Biffoni, in particolare, apprezza la disponibilità dimostrata in questi primi mesi dal neoministro Piantedosi. “Abbiamo avuto un incontro con lui è ha accolto le nostre proposte. A Genova, Cremona, Modena, Bologna siamo in difficoltà soprattutto riguardo ai minori non accompagnati e abbiamo chiesto al Viminale l’apertura di un centro per regione dove avviare una fase di screening e ridistribuirli in altri centri idonei entro 30 giorni”.

Proprio alla voce minori è più facile che il sistema entri in crisi. Dei 248 migranti sbarcati lo scorso 11 dicembre a Salerno dalla nave ong Geo Barents, 60 minori sono stati dirottati sul Cas di Taranto in mancanza di posti nel Sai, in aperta violazione delle norme, che impediscono ai bambini – che hanno pieno diritto di asilo – di condividere spazi in strutture con adulti non attrezzate alle loro esigenze. “Questo succede perché non esiste un piano di accoglienza strutturata, noi comuni non siamo messi nelle condizioni di accogliere”, denuncia Biffoni. 

 

Il Sai ha attualmente oltre 800 progetti attivi e finanzia in totale oltre 39 mila posti. “Sai e Cas hanno due sistemi paralleli, pur rivolgendosi alla stessa utenza, cioè i migranti. E’ un’altra stranezza tutta italiana”, dice il giurista Schiavone. “Se per le cooperative che gestiscono i Cas il guadagno è ammesso e la rendicontazione è analitica, ovvero le somme elargite dallo stato e non spese possono essere trattenute, nel sistema di accoglienza dei comuni questo non è ammesso e i controlli sono molto rigorosi”. Insomma, la gestione che fa capo agli enti locali, cioè quella del Sai, ha maglie molto più strette e permette pochi “volteggi” nei bilanci. Eppure anche la gestione dei progetti del Sai vive di anomalie. Nonostante esista già l’Anci, la gestione del bilancio di centinaia di milioni di euro per finanziare i progetti di accoglienza spetta a una fondazione privata, Cittalia. “Si tratta di un ente che è al 100 per cento di Anci. E’ stata creata solamente allo scopo di garantire più trasparenza”, dice Biffoni che della fondazione è anche presidente. Sul suo sito, Cittalia rende conto di ogni singolo bilancio annuale con estrema precisione. Nei fatti, resta dubbio il motivo per cui si sia innestata una gestione bicefala, che risale ai tempi della legge Bossi-Fini, dove gli stessi richiedenti asilo sono gestiti da un ente pubblico (il ministero dell’Interno) e da un soggetto privato (Cittalia). 

Sebbene, secondo Biffoni, “l’interesse dei comuni per i progetti di accoglienza diffusa è alto”, i numeri dicono che il sistema Sai copre oggi appena il 5 per cento del fabbisogno nazionale, peraltro con un divario notevole fra nord e sud: se in Calabria copre oltre il 50 per cento delle richieste, in Veneto non si supera il 10. Il motivo va ricercato nella volontarietà con cui gli enti locali aderiscono o meno al sistema. “Se la gran parte rifiuta di partecipare il motivo è squisitamente politico. Ma è come se un comune decidesse di fare la raccolta differenziata dei rifiuti e un altro invece no”, contesta Schiavone. “L’accoglienza per i richiedenti asilo è un diritto, non una gentile concessione. Eppure molti comuni, anche di grandi dimensioni, stanno lentamente uscendo dal Sai”. 

 

A Udine il caso è emblematico. La giunta guidata dal sindaco leghista Pietro Fontanini ha deciso di non rinnovare l’adesione al sistema di accoglienza diffusa a partire dal prossimo 1° gennaio. Forse incalzata dall’imminenza del voto per le amministrative, previsto per la prossima primavera, nel capoluogo friulano si lamenta una situazione di emergenza. L’assenza di dati ufficiali rende impossibile verificare questo stato di crisi. Gli ultimi disponibili, quelli che arrivano al 2020, dicono che il rapporto fra presenti e posti disponibili è sempre stato in attivo. Ma dopo l’arrivo in Italia di migliaia di profughi lungo la rotta balcanica, oltre a quelli provenienti dall’Ucraina, alla caserma Cavarzerani, uno dei Cas più grandi di Italia con 300 posti di capienza, si è arrivati, secondo stime fornite dai giornali locali, a 900 persone accolte. Una situazione drammatica, a cui si potrebbe ottemperare proprio potenziando il sistema di accoglienza diffusa a cui però vengono lasciate le briciole, in attesa di chiuderlo definitivamente con l’arrivo del nuovo anno. Secondo ReteSai, oggi i posti Sai finanziati nel comune di Udine sono appena 52. A partire dal settembre 2019, la caserma Cavarzerani è finita sotto la gestione – rieccola – di Medihospes. L’aggiudicazione dell’appalto al colosso dell’accoglienza ha scalzato altre cooperative, compresa niente di meno che la Croce Rossa Italiana. Spesa giornaliera prevista per ogni migrante: appena “22,64 euro pro capite pro die comprensivo di 2,50 di pocket money e tessera telefonica (euro 0,027 al giorno)”. Un accordo reiterato fino a marzo di quest’anno, rinnovato con un nuovo appalto aggiudicato sempre a Medihospes per “24,75 euro pro capite pro die”. Ma il limite di migranti ammessi fissato a 300 mette fuori regola la gestione della cooperativa. In sostanza: il sistema è in emergenza, ma il comune non intende trovare altre modalità per accogliere i migranti, contribuendo così ad alimentare l’emergenza. Interpellato dal Foglio per dare una spiegazione a un simile paradosso, l’emergenza dichiarata il sindaco Fontanini si è detto impossibilitato a rispondere. “E’ una tematica complessa”, fanno sapere dal comune. 

 

Nel 2016 fu l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano a trovare una soluzione condivisa da tutti per dare attuazione a un piano di accoglienza diffuso, strutturato e sostenibile. Con una circolare recante “Regole per l’avvio di una ripartizione graduale e sostenibile dei richiedenti asilo e dei rifugiati sul territorio nazionale attraverso lo Sprar” si prevedeva un sistema di incentivi. Ogni comune che si fosse offerto di accogliere una quota di 2,5 migranti ogni mille abitanti avrebbe avuto agevolazioni e meno Cas sul territorio. Inoltre, con la legge di Stabilità avrebbe ricevuto altri 500 euro all’anno per persona accolta. Un impegno rimasto inevaso fino a oggi, visto che nessuna legge di Bilancio ha mai previsto questo tesoretto. 

 

Quello che invece il governo Meloni ha appena deciso di mettere nero su bianco, all’articolo 120 della legge Finanziaria appena varata, è il potenziamento dei Cpr, ovvero dei Centri per il rimpatrio, dove sono ospitati i migranti che non hanno titolo a richiedere asilo e in attesa di essere allontanati dal paese. Per loro, il governo ha previsto 42 milioni di euro per i prossimi tre anni. Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nel 2021 meno del 50 per cento delle persone transitate nei Cpr è stato effettivamente rimpatriato. Il motivo è soprattutto l’assenza di accordi di estradizione con un numero sufficiente di stati di origine. Difficile credere che i 42 milioni contribuiranno a velocizzare i rimpatri. E così, i contribuenti italiani pagheranno un po’ di più, i migranti irregolari resteranno ancora a lungo in Italia nei Cpr o per le strade delle città, mentre i richiedenti asilo rimarranno nel limbo, elemosinando ciò che gli spetta di diritto. Come si richiede a un vero “stato di emergenza”.


  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.