La candidatura di Tremonti diventa una grana per la Meloni, mentre Salvini si affida a Borghi e Bagnai

Valerio Valentini

La leader sovranista si premura di mostrarsi affidabile. Ma a settembre dovrà scegliere tra Panetta (e Draghi) e chi del premier dice ogni male. Ecco perché le intemerate anti sistema dell'ex ministro dell'Economia sono un problema. Intanto la Lega promuove i teorici del No Euro

E’ il valore aggiunto che rischia di diventare zavorra, la risorsa che appare un ingombro. “Ma davvero ci conviene farci rappresentare da lui?”. La domanda, tra i consiglieri di Giorgia Meloni, cominciano a farsela. Perché lui, cioè Giulio Tremonti, sembra richiamare alla memoria un passato non proprio roseo. E siccome a pompare i candidati anti euro ci pensa già Matteo Salvini, in FdI c’è chi ritiene poco saggio battere quella strada. Non che sia facile controllarlo, certo. Anzi, da tutti Tremonti viene considerato un battitore libero, renitente a qualsiasi ordine di scuderia. L’avvicinamento andava avanti da tempo: da quando, cioè, la Meloni ha capito che va bene, sì, dagli all’immigrato, però poi bisogna anche mostrarsi affidabile agli occhi di quei sedicenti poteri forti contro cui pure tanti insulti ha scagliato negli anni. Altrimenti, la leader coriacea che ha iniziato la sua legislatura assecondando l’agenda Di Battista, chiedendo l’impeachment di Mattarella e scagliandosi contro il franco africano di Macron, non si premurerebbe di chiedere al prof. Sabino Cassese consigli su nomi di possibili futuri ministri.

Tra i quali non sembra, va detto, esserci Tremonti, che pure la riconoscenza della Meloni ha saputo meritarsela introducendola nei salotti buoni del suo Aspen Institute. Candidarlo nel cuore produttivo della Lombardia, con le stimmate del tecnico e il piglio di chi la sa lunga, significa lanciare un messaggio rassicurante agli imprenditori e ai ceti moderati. O, almeno, questa era la volontà. Nel senso che poi, siccome l’uomo è fatto a modo suo, Tremonti ha iniziato a condire la sua personalissima campagna con rivendicazioni un poco discutibili sul ben fatto del governo Berlusconi nel 2011 e sul conseguente “colpo di stato” (ipse dixit, et dicit tuttavia) attuato alla finanza internazionale, senza contare le intemerate contro il globalismo e il lungo elenco dei supposti errori di Draghi. E insomma, tra gli storici consiglieri di Donna Giorgia, c’è chi si chiede, e le chiede, se non si corra il rischio di avvicinare troppo il logo del partito al ricordo di una stagione – quella dello spread impazzito, della Troika e dell’austerity – sul cui ritorno la Meloni dovrebbe invece dare garanzie: con noi al governo, i conti non si sfasceranno. E siccome il primo atto del prossimo governo di centrodestra sarebbe il rimangiarsi promesse e propaganda e varare una legge di Bilancio alquanto restrittiva, perché correre questo rischio? Le ambiguità andranno sciolte: non si potrà vezzeggiare Fabio Panetta, uomo di fiducia di Draghi nel board della Bce, e al tempo stesso promuovere chi, come Tremonti, la politica economica dell’ex capo dell’Eurotower la considera “devastante”.
 

Senza contare, poi, che a solleticare l’elettorato euroscettico ci pensa già Salvini. Il quale, dovendo attuare una selezione drastica nel compilare le liste, ha ritenuto prioritario tutelare tutti gli alfieri del credo “basta euro”: e così Claudio Borghi si ritrova capolista in Toscana per il Senato, Alberto Bagnai si vede assegnato un collegio sicuro in Abruzzo per la Camera, Armando Siri è addirittura stato scelto come responsabile per il programma. Si dirà: è una scelta di coerenza. Ma è una coerenza che dà il senso della bussola scelta, perché nel frattempo a finire esclusi sono tanti dei volti del leghismo moderato, da Raffaele Volpi a Roberto Ferrari, da Matteo Bianchi a Daniele Belotti. Una selezione mirata, insomma, che ha lasciato a Giancarlo Giorgetti, secondo i calcoli dei ragionieri salviniani, un bollettino di cinque nomi sicuri, e a Massimiliano Fedriga neppure quelli. Un segnale che tra i fedelissimi della Meloni è stato letto con disagio: perché con la Lega bisognerà governare, poi, e mettersi subito al lavoro su dossier economici complicati. E farlo con un partito che s’affida alla dottrina di Borghi&Bagnai potrebbe essere difficile, anche senza che Tremonti ci metta del suo. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.