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Giorgia Meloni cerca Panetta. E gli altri? La politica alla prova delle nuove élite

Dario Di Vico

I nuovi membri dei piani alti corteggiati dai partiti sono difficili da conquistare: dall'abbandono della verticalità e dei poteri apicali al predominio della notorietà tramite le grandi riviste internazionali

Nelle precedenti campagne elettorali, a iniziare da quella per le politiche del 2018, era quasi vietato parlare delle élite. Vigeva il principio dell’uno-vale-uno e diventava difficile per gli oppositori del Movimento 5 stelle anche solo tentare di scalare la montagna. Meglio derubricare l’argomento ed evitare rogne. In questa tornata invece il tema sta riaffiorando, anche se in maniera indiretta. Siccome il partito che è in testa nei sondaggi e viene pronosticato come probabile vincitore non ha un gruppo dirigente sufficientemente largo e competente, dallo stesso quartier generale di Fratelli d’Italia sono partiti richiami o messaggi diretti a questa o quella figura dell’establishment economico.

 

Si è parlato in prima battuta di Giulio Tremonti, poi in rapida successione di Luca Ricolfi, di Domenico Siniscalco e ancora di Fabio Panetta, di Carlo Bonomi e di Carlo Messina. Non è questa la sede per entrare nel merito dei singoli nomi e della loro reale disponibilità a farsi carico del ruolo di pedagoghi della destra sovranista, per ora è più interessante sottolineare come il vero messaggio sia: “Delle élite non si può fare a meno”.
E lo slittamento di mood dal 2018 al 2023 è significativo, anche se non è sufficiente per poter sostenere che la teoria populista dell’inutilità delle classi dirigenti sia stata sconfitta.

 

In realtà, al di là dell’egemonia grillina che ha imposto per anni l’occultamento del tema, in Italia quasi più nessuno studia le élite, la loro formazione, i loro percorsi, la fortissima tentazione di emigrare e via di questo passo. In materia siamo rimasti ancora allo schema – o meglio allo stereotipo – dei Poteri Forti. Ma dai tempi di Enrico Cuccia, che simboleggiava alla perfezione quell’idea di un potere discreto nelle forme ma invasivo nella sostanza, di acqua sotto i ponti ne è passata tantissima. Soprattutto in chiave di apertura dell’economia italiana che, se a quel tempo vedeva al vertice un sistema incrociato di supporto alle vecchie famiglie proprietarie, oggi sembra quasi orfana di una vera classe dirigente. Il processo di ulteriore apertura della nostra economia e il suo radicamento nel triangolo manifatturiero con Francia e Germania ha infatti ridisegnato in chiave orizzontale lo skyline delle nostre élite.

 

C’è molta meno verticalità, vuoi per il tramonto dei grandi finanzieri vuoi per il progressivo spegnersi della generazione dei capitani d’industria. Insomma siamo più connessi all’Europa ma abbiamo meno protagonisti apicali. Tutto ciò la politica non lo sa e forse la campagna di reclutamento avviata da Giorgia Meloni subisce ancora il fascino della vecchia tassonomia dei poteri forti, a suo tempo codificata da Pinuccio Tatarella in una memorabile intervista a Dario Cresto-Dina poco prima delle elezioni del 1994: “I poteri forti sono: la Corte costituzionale, il Csm, Mediobanca, i servizi segreti, la massoneria, Bankitalia, i gruppi editoriali con le loro intese, la grande industria privata”.

 

A quasi trent’anni di distanza è lapalissiano aggiungere che quel paesaggio è profondamente cambiato, a cominciare dal potere della carta stampata. Guai però a trarne la conseguenza estrema che non produciamo più élite. Per trovarle e indagarne la cultura e le propensioni bisogna seguire i percorsi dell’economia. Prendiamo ad esempio quella che potremmo chiamare la classe dirigente dell’export. Si tratta di qualche migliaio di imprenditori che hanno reso possibile una straordinaria discontinuità. A partire dalla Grande crisi del 2008-2015, pochi avrebbero previsto che ne saremmo usciti con una roboante affermazione delle nostre esportazioni, capace di dar la paga anche ai partner europei più invidiati. Ebbene questo movimento ha comunque creato delle élite orizzontali rappresentate dai signori delle multinazionali tascabili o delle Pmi più internazionalizzate che sono stati capaci di creare valore nelle relazioni internazionali e nella complicata dialettica che sta dietro a una grande catena del valore.

 

E’ una scuola di dirigenza estremamente selettiva e chi riesce a emergere è un professionista dei sistemi complessi. Ma torniamo alla politica: quanto le élite dell’export sono interessate alla res publica? Non tantissimo, viene da rispondere. Sul territorio hanno maturato un rapporto di delega con il centrodestra che si è spostato nel tempo da Forza Italia alla Lega, ma nell’ultimo anno hanno vivamente apprezzato la statura internazionale di Mario Draghi. Da qui le sortite polemiche verso chi ha defenestrato il suo governo da parte di Laura Dalla Vecchia ed Enrico Carraro, due esponenti di punta della confindustrialità nordestina. Ma ci fermiamo qua, non ci sono i segnali di una maggiore consapevolezza o di una crescita di ruolo.

 

Un secondo segmento delle nuove élite orizzontali viene dall’economia della conoscenza. Per quantità non sono minimamente paragonabili a quelle dell’export ma anche in questo caso è decisivo il network internazionale. Più che il club di St. Moritz, come per le vecchie élite quello che conta è la citazione delle grandi riviste internazionali o la chiamata a far parte di un board di particolare prestigio. Stiamo parlando di élite di estrazione urbana, Milano ne fornisce più di altre città e di figure professionali come ricercatori, architetti, fundraiser, tecnologi, avvocati d’affari, designer. In Italia la constituency dell’innovazione non è così larga come dovrebbe, ma tutto sommato dalle università, dalle professioni e in qualche caso dalle imprese emergono individualità che infoltiscono il segmento delle élite della conoscenza.

 

A differenza dei colleghi dell’export, la loro attenzione verso la res publica italiana è più forte, e non solo perché molte loro scelte e in parte le loro carriere possono dipendere da decisioni collettive, ma anche per un maggiore senso dell’insieme. Sono sistemici, non possono permettersi di essere anarchici, specie in un paese che ama disperdere le proprie risorse pubbliche.
Un terzo segmento è quello degli expat che ormai diventano sempre di più, visto che guardando ai grandi numeri gli italiani che emigrano non sono tanti di meno degli stranieri che sbarcano in Italia. Gli expat lavorano negli organismi internazionali, fanno gli sherpa, sono negli organigrammi delle grandi multinazionali, hanno vinto cattedre o assegni di ricerca nelle università europee e no.

 

L’associazione minima&moralia fondata da Fabrizio Pagani ne è un collettore. Gli expat sono degli amanti traditi, sono i primi a indignarsi per le non-scelte del proprio paese e finiscono per soffrire di una sorta di inferiority complex nei confronti di anglosassoni, tedeschi e francesi. Draghi a Palazzo Chigi è stata per loro una grande rivalsa, il sogno di poter suturare la ferita d’amore che li fa star male.

 

Vorrebbero che fossimo un paese normale e nei confronti della res publica hanno un attaccamento quasi viscerale, seguono la politica italiana quasi più di chi è rimasto in patria e sono chiaramente mal disposti verso quella destra che voleva uscire dall’euro o più in generale ama mostrarsi euro-aliena. Ma alla fine anche loro hanno un handicap: non sanno davvero quante fiche vogliono puntare sulla casella Italia.

P.S.: C’è qualche leader politico così coraggioso da parlare di élite in questa campagna elettorale e da confrontarsi con la nuova mappa delle classi dirigenti? Meloni cerca Panetta e gli altri, invece, chi cercano? Nell’agenda Draghi questo capitolo non c’è.