(Foto di Ansa) 

Il centesimo anniversario

La Nato di Berlinguer, uno schiaffo a Mosca

Giuseppe Bedeschi

Il compromesso storico e la tragica grandezza del leader del Pci un secolo fa. La sua proposta era di staccare il partito dall'Urss accettando i valori del pluralismo e della società occidentale, al fine di creare un gruppo costruttivo per le sorti del paese

Il 25 maggio ricorre il centesimo anniversario della nascita di Enrico Berlinguer, uno dei maggiori protagonisti della storia italiana della seconda metà del Novecento. Quando si pensa a lui – che nel 1972 divenne segretario del più forte partito comunista occidentale (succedendo a Luigi Longo) – si pensa subito alla proposta che egli fece del “compromesso storico”, che segnerà una fase importante della storia italiana. In alcuni articoli pubblicati nell’ottobre 1973, all’indomani del colpo di stato militare in Cile che aveva rovesciato il governo di Allende, Berlinguer scrisse: “La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico, rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Era infatti illusorio, secondo Berlinguer, ritenere che, anche se i partiti e le forze di sinistra fossero riusciti a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare, ciò avrebbe garantito la vita di un governo espressione di quel 51 per cento in contrapposizione frontale contro l’altro 49. Perciò Berlinguer scartava una “alternativa di sinistra” per la guida del paese e proponeva una “alternativa democratica”, cioè una collaborazione delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica.

Berlinguer formulò la proposta del “compromesso storico” in un momento di forte difficoltà del paese. In seguito alla guerra del Kippur fra i paesi arabi e Israele, il prezzo del petrolio risultò quadruplicato nell’ottobre 1973, mettendo in grave difficoltà le nostre industrie e facendo salire l’inflazione al 21,4 per cento.
La proposta berlingueriana del “compromesso storico” non fu accolta nel Pci con entusiasmo. Ai vertici del partito il suo presidente, Luigi Longo, espresse disagio (“l’espressione ‘compromesso’ non mi piace”). Ma soprattutto nella base operaia si manifestarono resistenze e preoccupazioni. In alcuni incontri con operai, Berlinguer si sentì dire: “Davvero non c’è il rischio di cedimenti ai padroni?”; “ma questa politica non affievolisce lo spirito dei comunisti?”
Per rendere plausibile la propria proposta, sia sul piano interno sia sul piano internazionale, Berlinguer doveva prendere le distanze dall’Urss, cioè mostrare la propria indipendenza dal “socialismo reale”. Il Pci aveva già espresso il proprio “dissenso” nel 1968 quando le truppe del “patto di Varsavia” invasero la Cecoslovacchia per stroncarvi la “primavera di Praga”. In questa direzione Berlinguer si mosse con grande decisione. Nel 1975 egli dichiarò che la parola d’ordine “fuori l’Italia dalla Nato” era ormai superata, perché le uscite unilaterali di singoli paesi dal Patto Atlantico o dal Patto di Varsavia avrebbero turbato il processo di distensione internazionale.

Nello stesso anno Berlinguer rimosse dalla segreteria del partito il dirigente più legato all’Urss, Armando Cossutta; inoltre il 1975 fu l’anno della dichiarazione congiunta Berlinguer-Carrillo (segretario del partito comunista spagnolo): “I comunisti italiani e spagnoli dichiarano solennemente che – nella loro concezione di un’avanzata democratica al socialismo nella pace e nella libertà – si esprime non un atteggiamento tattico ma un convincimento strategico”. Il 26 febbraio 1976, intervenendo a Mosca al XXV congresso del Partito comunista sovietico, Berlinguer dichiarò: “Noi ci battiamo per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, delle libertà religiose e della libertà della cultura, dell’arte e delle scienze. Pensiamo che in Italia si possa e si debba (…) costruire la società socialista col contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi, e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico”. Dalla platea del congresso sovietico si levò un alto brusio di indignazione. Il discorso di Berlinguer ebbe una vasta eco internazionale.
In una intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera (giugno 1976) Berlinguer dichiarò: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo… Mi sento più sicuro stando di qua”. Queste affermazioni suscitarono nel Partito comunista un forte sconcerto (l’Unità”, che pubblicò il testo dell’intervista, non riportò i passi sul Patto Atlantico). Dichiarò più tardi il più stretto collaboratore di Berlinguer, Antonio Tatò: “Quella battuta sulla Nato ‘ombrello protettivo’ ebbe nel Pci, in generale, un’accoglienza poco favorevole”.

E’ inutile dire che in questa nuova politica di Berlinguer c’erano contraddizioni laceranti: come avviare un cammino verso il socialismo attraverso un “compromesso” con la Democrazia cristiana, che certo di riforme socialiste non voleva sapere, e che dal 1947 in poi era sempre stata considerata dal Pci il suo nemico storico? E quali sarebbero state le riforme più urgenti, di stampo socialista, da attuare? Su questi punti di fondamentale importanza Berlinguer si manteneva molto nel vago. E tuttavia non si può non riconoscere che egli stava facendo passi da gigante nel ripudiare la sudditanza all’Urss (che era sempre stata la posizione di Togliatti), e nel tentare di trasformare il dna del Pci, convertendolo ai valori del mondo occidentale e della democrazia politica.

Nel paese, sempre più travagliato dalla crisi economica e dalla inflazione a due cifre, il Pci veniva riscuotendo consensi sempre più ampi. Nelle elezioni regionali del giugno 1975, la distanza fra Dc e Pci, che alle regionali del 1970 era stata di 10 punti, si restrinse a 1,8: il Pci balzò al 33,4 per cento, con una impennata del 6,2 per cento, la Dc scese al 35,2, con una perdita del 3,6. Nelle elezioni politiche del giugno 1976 il Pci crebbe ancora (34,4 per cento); la Dc recuperò (tornò al 38,7), ma calarono i partiti minori, e non c’erano più i numeri per governi centristi.
Il paese viveva una situazione di emergenza, non solo per la grave crisi economica, ma anche per il dilagare del terrorismo brigatista: si susseguirono, nel 1976 e nel 1977, decine e decine di attentati e di uccisioni (di magistrati, di avvocati, di giornalisti ecc.). In questa situazione così difficile nacque (il grande regista era Moro, coadiuvato dal nuovo segretario della Dc Zaccagnini) il governo della “non-sfiducia”: cioè un governo monocolore democristiano presieduto da Andreotti (19 luglio 1976-gennaio 1978), con le astensioni di Pci, Psi, Psdi, Pri e Pli (votarono contro il Msi, i radicali e i demoproletari). In questo modo il Pci non entrava nel governo, ma entrava a far parte dell’arco di forze che, sia pure indirettamente, lo sostenevano: era  l’inizio di una legittimazione del Pci  come partito di governo.

Ma il cammino era ancora lungo e irto di difficoltà. Nell’inverno 1976-77 venne attuata una severa manovra economica deflazionistica, che colpiva i ceti più deboli: le imposte aumentarono di circa 4.900 miliardi, le tariffe di circa 1.400 miliardi, i prezzi amministrati di circa 1.100 miliardi di lire. Negli anni passati il Pci avrebbe definito questa manovra una “stangata”, da combattere fermamente; ora, invece, l’accettava senza contropartite e avallava la politica dei “due tempi” (prima le misure di risanamento, poi le riforme), che aveva aspramente rimproverato al PSI ai tempi del centro-sinistra. La delusione della base comunista fu molto forte.  Il corpo del Pci era del tutto impreparato ad assumere responsabilità di governo.

E tuttavia Berlinguer proseguì nella politica iniziata, nella convinzione che il processo di “legittimazione” dei comunisti sarebbe stato lungo (gli Stati Uniti erano aspramente contrari, anche con la presidenza Carter), e che rompere ora, andando a nuove elezioni, in un quadro di gravissima crisi economica e di terrorismo dilagante, si rischiava una forte ricaduta a destra. Si giunse così, all’inizio del 1978, alla partecipazione “contrattata, riconosciuta ed esplicita” del Pci alla maggioranza che avrebbe sostenuto il nuovo ministero Andreotti, definito di “solidarietà nazionale”. L’inizio di tale governo fu, per i comunisti, pessimo, perché Moro (che aveva voluto portare tutta la Dc a tale appuntamento, comprese le correnti contrarie ad esso) vi aveva immesso personalità profondamente invise ai comunisti. Berlinguer pensò di non votare la fiducia, ma la mattina del 16 marzo le Brigate rosse rapirono Moro. Il seguito è noto: alla fine del gennaio 1979 Berlinguer annunciò l’uscita dei comunisti dalla maggioranza di governo, e nelle elezioni politiche di giugno il Pci perse ben quattro punti (dal 34,4 al 30,4 per cento). Sul “compromesso storico” calava una pietra tombale; la politica di Berlinguer registrava un fallimento totale.

Eppure nel “compromesso storico” si manifestò la tragica grandezza di Berlinguer. Fu infatti il tentativo di staccare il Pci dall’Urss e dal “socialismo reale”, di cambiargli il dna immettendovi i valori del pluralismo e della democrazia politica, di trarlo fuori dal ghetto di una opposizione fine a se stessa, e di farlo partecipare in modo costruttivo al governo del paese.
Gli ultimi anni di Berlinguer furono tristi e cupi: passato all’opposizione, egli dovette abbandonare tutto quello che aveva promosso negli anni precedenti. Il Partito comunista, che in fondo non l’aveva mai accettato, passò di sconfitta in sconfitta, finché le “dure repliche della storia” lo costrinsero a cambiare nome e a diventare un’altra cosa.

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