Quel che resta della diversità

L'autonomia da Mosca del vecchio Pci messa a dura prova dai putiniani di oggi

Francesco Cundari

Nonostante i suoi limiti e contraddizioni, i giustificazionismi e gli orrori, ma anche le prese di distanza e le battaglie coraggiose, continuo a credere che la storia dei comunisti italiani non sia riducibile a quella di un capitolo minore nel libro nero del comunismo internazionale

Di solito, nel gergo del Pci, quando ci si riferiva alla diversità dei comunisti italiani rispetto al modello sovietico e agli altri partiti comunisti, si preferivano termini come peculiarità, specificità, originalità (la serie è in crescendo), variamente combinati o anche tutti insieme. Quello che gli americani, i democristiani e le destre non capivano o fingevano di non capire, quando li accusavano di essere dei burattini agli ordini di Mosca, era proprio questo: la peculiarità del Pci. La sua specificità (variante molto usata: la specificità nazionale, a sottolinearne il radicamento nelle più antiche e gloriose tradizioni della cultura e della storia patria, a cominciare ovviamente dal Risorgimento).

   
Il termine “diversità”, per ragioni intuibili, era riservato al concetto – non diciamo opposto, facciamo simmetrico – con cui i comunisti si distinguevano dagli altri partiti italiani. Democristiani e socialisti in particolare. 

  
“Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”, domanda Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer, nella famosa intervista sulla questione morale, pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981.

  
“Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno degenerato, quale più quale meno, da questa funzione costituzionale loro propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?”.

 

La “diversità” era riservata al concetto con cui il Pci si distingueva dagli altri partiti italiani. Con i sovietici i termini erano meno perentori

 
Si capisce dunque perché, quando si trattava di distinguersi dai gloriosi compagni sovietici, o dagli altri partiti fratelli dell’Europa dell’est, a Botteghe Oscure si prediligessero termini meno sprezzanti e perentori, e si preferisse pertanto parlare di peculiarità, specificità, originalità del Pci.

  
Comunque la chiamassero, però, all’idea tenevano tantissimo. E per quanto tali attenzioni lessicali possano far malignamente pensare il contrario, non si può dubitare che almeno per molti di loro – sebbene non per tutti, s’intende – la questione era serissima e strategica. 

  
Non per niente, questo tema ricorre in modo ossessivo lungo tutta la storia del Pci, testimoniato da decine di episodi, tramandato in centinaia di aneddoti, raccontato in una forma o nell’altra attraverso migliaia di apologhi. 

  
Uno dei format più tipici è quello del dialogo, che vede spesso nel ruolo della spalla che non capisce e non si capacita un americano, a rendere la scenetta ancora più significativa. 

  
“Il generale MacFarlane si meravigliò con me che il Pci non volesse fare la rivoluzione, e me ne diede atto”, racconta per esempio agli studenti dell’Università di Pisa, negli anni Sessanta, un anziano Palmiro Togliatti. Ma ecco che accade l’imprevisto. “Ci voleva l’ingenuità di un generale americano per pensare che un partito che si proclamava comunista volesse il comunismo”, lo interrompe infatti dalla platea, incredibile a dirsi, il giovane Adriano Sofri. Perché questa famosa diversità, il non voler fare come in Russia, cioè il non voler fare la rivoluzione, sarà per lungo tempo anche oggetto di contestazione, da sinistra. E così, dopo aver passato vent’anni tentando di discolparsi dall’accusa di volerla fare, nel tentativo di dimostrare che erano davvero diversi, che le loro convinzioni democratiche erano sincere, rintuzzando le accuse di chi non ci credeva, i comunisti italiani scoprivano improvvisamente di doversi difendere anche dall’accusa opposta: dalla contestazione di chi ci credeva, eccome, e proprio per questo li contestava.

   
Al punto di congiunzione tra le due tendenze, e sempre con un americano come interlocutore, si trova negli anni Settanta Aldo Moro, uno dei più singolari e sfortunati sostenitori, per dir così dall’esterno, della suddetta teoria.

    

“Il generale MacFarlane si meravigliò con me che il Pci non volesse fare la rivoluzione, e me ne diede atto”, così un anziano Palmiro Togliatti

   
In una curiosa variante del dialogo togliattiano col generale MacFarlane, doveva essere infatti proprio il leader democristiano a scatenare le ire di Henry Kissinger, tentando di ammorbidirne l’assoluta contrarietà a qualunque coinvolgimento del Pci nel governo. In un incontro riservato con lui e con il presidente Gerald Ford del 1975, dunque un anno prima della famosa intervista in cui Enrico Berlinguer avrebbe dichiarato di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato, Moro parlava della diversità dei comunisti italiani e del loro atteggiamento aperto anche sull’alleanza atlantica, ed era il segretario di stato americano a rintuzzarlo con parole dure: “A noi non importa se firmano per la Nato con il sangue. Avere i comunisti nel governo italiano sarebbe del tutto incompatibile con il proseguimento dell’alleanza”. Per poi aggiungere, con perfida ironia: “Sarebbe assolutamente impossibile per noi partecipare a un’alleanza con governi che includessero dei comunisti che alcuni pretendono sarebbero contro il comunismo”.

   
Qualunque cosa si pensi dell’analisi, non si può negare l’efficacia della formulazione. Eppure su questa strana pretesa, come la chiamava Kissinger, i comunisti italiani avevano edificato gran parte della loro fortuna – pardon, della loro egemonia – sulla sinistra e più in generale sulla società italiana, a cominciare dal mondo della cultura e del giornalismo. Vale a dire molta di quella sfilza di storici, filosofi, opinionisti e pensatori che oggi vediamo sfilare in tv (in persona, i più anziani, o attraverso i loro più tardi epigoni), a difendere le atrocità commesse dall’esercito russo con argomenti che avrebbero ripugnato a Pietro Secchia, a colpevolizzare le vittime e a giustificare i carnefici con paralogismi che avrebbero fatto inorridire Mario Alicata, a disquisire e bizantineggiare su massacri e stupri di massa come certo non si sarebbe mai sognato di fare Concetto Marchesi. Lui che, dall’alto della sua cultura classica, non aveva esitato a difendere direttamente Stalin, nel pieno delle polemiche sul rapporto Krusciov, dalla tribuna dell’ottavo congresso del Pci, con quella famosissima battuta che vale sempre la pena di ricordare (e che, con supremo snobismo, il classicista Luciano Canfora omette nella sua bellissima e non sintetica biografia, “Il sovversivo”, pubblicata da Laterza): “Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori romani, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato; a Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”.

   

Oggi si disquisisce sui massacri come non si sarebbe mai sognato di fare Concetto Marchesi, che non aveva esitato a difendere direttamente Stalin

  
Proprio quel terribile 1956, prima con l’illusione della destalinizzazione e poi con il duro risveglio dei carri armati sovietici a Budapest, per tanti intellettuali, militanti e dirigenti era stato il momento della presa di coscienza.

  
Il modo in cui, nonostante tutto, il gruppo dirigente aveva in larga misura fatto quadrato dietro Togliatti (che peraltro i carri armati sovietici in Ungheria, da parte sua, li aveva praticamente invocati, prima, nei suoi messaggi a Mosca, e caldamente approvati, dopo), sarebbe diventato, giustamente, un topos. Uno dei principali capi d’accusa utilizzati dagli avversari – e anche da quella parte della sinistra, come i socialisti, che proprio allora con i sovietici aveva voluto tagliare i ponti – per dimostrare che alla fine, gratta gratta, tanto diversi i comunisti italiani non lo erano mica. 

  
Certo anche allora, nel 1956, non erano mancate le distinzioni cavillose e le argomentazioni speciose, oggi parleremmo forse di dissonanza cognitiva, quando a proposito dei crimini di Stalin denunciati da Krusciov, ad esempio, come avrebbe ricordato Rossana Rossanda, nel Pci ci si divideva tra chi diceva “taluni errori”, chi “errori e colpe”, chi “colpe e delitti”.

  
Certo anche dopo le accese discussioni sull’intervento sovietico in Ungheria, dopo l’appello dei 101 intellettuali comunisti a favore di Budapest, che l’Unità rifiuta di pubblicare, dopo litigi e separazioni dolorose, in tanti trassero la conclusione che alla fine quello della “specificità” italiana era in larga parte un mito, una rivendicazione infondata. Ma certo la discussione e lo sconcerto, per tanti, furono sinceri, ed ebbero senza dubbio un peso anche nell’evoluzione del partito e della sua linea, se nel 1968, quando i carri armati sovietici entrarono a Praga, il Pci non esitò a condannare l’intervento senza giri di parole.

  
E cosa dire poi delle ferme prese di posizione di Berlinguer, di quando rivendicò il “valore storicamente universale della democrazia”, e non in un salotto romano, ma in un discorso a Mosca, mentre si celebrava il sessantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre. Peraltro nella stessa visita in cui, come ricorda Silvio Pons (“Berlinguer e la fine del comunismo”, Einaudi), il segretario del Pci rivendicava con Breznev l’influenza positiva dal suo partito sulla politica estera italiana, ma il segretario del Pcus ribatteva che il Pci aveva l’obbligo di “smascherare la Nato, la sostanza aggressiva e la politica aggressiva di questo blocco”.

  
L’autonomia del Pci non era solo ipocrisia, propaganda, tatticismo, sebbene certamente non mancassero gli stalinisti convinti, per i quali era esattamente questo. E certo vale sempre la pena di considerare l’osservazione che Giulio Andreotti faceva a Oriana Fallaci: “Bisogna distinguere tra comunisti e comunismo. E questa distinzione io la faccio. Pajetta ad esempio ce lo vedo poco in una dittatura del proletariato. Penso che lo fucilerebbero subito. Ma non sarebbe mica una consolazione esser fucilati con lui”.

  

L’autonomia del Pci non era solo ipocrisia, propaganda, tatticismo. “Bisogna distinguere tra comunisti e comunismo”, così Giulio Andreotti

   
Ciò nonostante, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, i giustificazionismi e gli orrori, ma anche le prese di distanza e le battaglie coraggiose, voglio continuare a credere che la storia dei comunisti italiani non sia riducibile a quella di un capitolo minore nel libro nero del comunismo internazionale. Dunque voglio continuare a pensare anche io, come ha scritto Siegmund Ginzberg sul Foglio del 2 aprile scorso, che i comunisti italiani di un tempo, oggi, per nessun motivo al mondo si confonderebbero con i putiniani che affollano i nostri talk show. Però bisogna anche riconoscere che sono tanti, ed è difficile scomunicarli tutti, adesso.

  
Nulla è più triste – ma forse anche più caratteristico dell’età adulta – dell’improvvisa consapevolezza di quanto coloro ai quali da giovani guardavamo come guide sicure e modelli inarrivabili fossero, a ben vedere, persino più smarriti di noi.

  
Personalmente, posso dire di non avere mai considerato nessuno di quei soggetti come una guida, ma certo anch’io ho creduto, e per molti versi voglio credere ancora, all’idea che la storia dei comunisti italiani non fosse riducibile semplicemente al modello di un “partito fantoccio” dell’Urss, per usare le categorie e il lessico che tanti di loro usano oggi a proposito del rapporto tra l’Ucraina e gli Stati Uniti (o la Nato). Sarei loro immensamente grato, però, se me lo rendessero un po’ meno difficile. Non foss’altro per non correre il rischio di essere svegliato una notte dall’improvvisa consapevolezza del fatto che il pupazzo, invece, ero io.