Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Come muore la Rai

La Rai diventa il primo inoccultabile fallimento di Draghi

Salvatore Merlo

Fuortes doveva innovare, invece ha lottizzato come se la tv di stato non fosse sull’orlo del default. Intervista a Pier Luigi Celli, ex direttore generale della Rai

“Le persone dignitose in questi casi si dimettono”. E Pier Luigi Celli si riferisce a Carlo Fuortes, l’amministratore delegato della Rai. “Vent’anni fa stavo al suo posto. A capo dell’azienda. Al settimo piano di Viale Mazzini. I partiti cominciarono a mangiarmi la pappa in testa. E io me ne andai. Anche Antonio Campo Dall’Orto si è dimesso, più di recente. È più dignitoso andarsene che fare i camerieri, specie se come Fuortes hai strombazzato la tua indipendenza. Specie se ti trovi a gestire una situazione tragica come quella attuale della Rai e poi finisce com’è finita”. E com’è finita? Così: Fuortes doveva fare la rivoluzione e invece ha restaurato la lottizzazione. L’eternità di foresta della Rai. Eppure aveva esordito dicendo che “i partiti non bussano alla mia porta”. Celli è sarcastico: “In effetti è vero. In questi mesi è andato lui a bussare alla politica”. Col cappello in mano a quanto pare. Da Franceschini, Di Maio, Salvini... A prendere appunti. Così ieri, quando sono arrivate le nomine, le direzioni, ecco che si è aperto il mercato, fino a notte fonda. Il suk della spartizione radiotelevisiva. Uno a te uno a me, uno a te uno a me. “La Rai rischia il fallimento. Il mondo è cambiato”, ripete Celli. “Ci sono Netflix, Amazon, Disney+ e questi in Rai che fanno? Si spartiscono le direzioni di quattro tg che invece andrebbero accorpati come sta facendo persino Mediaset che non è precisamente un’azienda moderna”.

 

La Rai ha i conti in disordine, i bilanci in rosso malgrado il canone e la pubblicità. Secondo i maggiori esperti del settore radiotelevisivo, le tv generaliste potrebbero non sopravvivere alla rivoluzione digitale dello streaming e scomparire in un arco di tempo anche piuttosto rapido, dieci o forse quindici anni. Persino meno. Dovunque si cambia. Ci si trasforma. Ma non a Viale Mazzini. La Rai è infatti un problema industriale. Un modello economico fallimentare, paragonabile alla Cassa del Mezzogiorno, per giunta all’interno di un settore che sta morendo. Eppure, mentre il mondo cambia, mentre gli ascolti calano e si spostano inesorabilmente sulla tv via internet, mentre tutto dovrebbe spingere una classe dirigente consapevole al rinnovamento e alla fantasia, alla ricerca del talento e dell’innovazione, ecco che invece a Viale Mazzini si comportano come nulla fosse.

 

Anzi. Tutti spolpano un pezzo della carcassa, finché c’è qualcosa ancora da spolpare. I partiti, i manager, i funzionari, i giornalisti, i sindacati, i fornitori, gli agenti delle star e le società di produzione private che campano sull’inefficienza produttiva della Rai. Troppi interessi. Troppo forti. Così persino Mario Draghi mette alla guida dell’azienda un amministratore delegato che anziché porre le basi del salvataggio, anziché intercettare il cambiamento, si comporta come i suoi predecessori di trenta e quarant’anni fa. Forse peggio. C’è infatti un’aggravante: lui avrebbe la forza di Draghi alle spalle. Ma niente. Sembra di essere tornati agli anni Ottanta. Solo che non sono più gli anni Ottanta purtroppo. Ecco allora i partiti al pascolo Rai, come sempre, impegnati a curare i loro interessi di sottobottega televisiva, di marchetta in onda media. Il Tg1 al Pd, il Tg2 ai sovranisti, una direzione di genere alla Meloni, una alla sinistra, con Giuseppe Conte e i grillini che protestano perché stavolta non sono riusciti a bagnarsi il becco, sono stati esclusi dalla spartizione... Un trauma per Conte, che durante la pandemia costringeva i tg Rai a trasmettere le sue dirette Fb.

 

Dieci anni fa un altro amministratore delegato, Luigi Gubitosi, aveva tentato di fondere i telegiornali. Di razionalizzare. Sapeva che la cosa sarebbe esplosa ben presto. Che i conti non tornano. Quale azienda editoriale ha millesettecento giornalisti impiegati e otto testate giornalistiche? Gubitosi lo mandarono via, ovviamente. I telegiornali iservono perché ogni micro-potere ne deve avere uno. E infatti Fuortes non c’ha nemmeno provato a cambiarli. Un mese fa circa ha chiuso un accordo tacito col sindacato Usigrai di cui tutti sanno tutto: i tg non si toccano. In Rai non si tocca nulla. Dopo alcune proteste sindacali, ad agosto, Fuortes aveva persino accettato di mandare tutti i quindici vaticanisti della Rai a seguire il viaggio del Papa in Iraq. Quindici vaticanisti! Più numerosi del seguito che il Papa si portava dietro da Roma. Quale azienda può permettersi una  cosa del genere? Quanto può durare prima che salti in aria mandando per strada i suoi tredicimila dipendenti che sono di più di quelli che la Fiat ha in Italia? E quale azienda è talmente ricattata dalle multinazionali della produzione televisiva da non riuscire a modificare i propri palinsesti liberamente? Solo la povera Rai di Fuortes, che infatti va in malora e non può nemmeno permettersi di spostare d’orario, dalla sera al pomeriggio, la fiction “Un posto al sole” perché altrimenti calerebbe un po’ la raccolta pubblicitaria e di conseguenza anche il budget che la Rai dà alla Freemantle di Lorenzo Mieli (oggi circa 13 milioni di euro l’anno garantiti).

 

Persino Mediaset, che  non è un’azienda moderna, si sta ristrutturando”, conclude allora Pier Luigi Celli, che il mondo delle aziende e della politica lo conosce bene, lui  che ormai, a ottant’anni, di tutto questo  parla anche con una certa spigliata libertà. Solo gli ottantenni infatti in Italia sembrano liberi di parlare. Gli altri aspettano sempre una prebenda, un regalino, un pennacchio, una rendita, un favore da farsi restituire. Ragione per la quale anche del disastro Rai si parla poco. E male. “E comunque Mediaset ha una prospettiva”, riprende Celli. “Può essere venduta. Ma la Rai? La Rai non la vendi. La Rai non è un’azienda qualsiasi. La Rai diventa un’altra Alitalia. Solo che è più grande di Alitalia, dunque è un disastro sociale più grosso. E inoltre forse è anche molto più importante di Alitalia,  perché in teoria avrebbe una funzione sociale. La Rai è l’immaginario di questo paese, ammesso che questo paese abbia ancora un immaginario”.

 

E allora lasciarla morire è addirittura criminale. Lasciare che la Rai resti il pascolo della mediocrità politica fino all’esaurimento è criminale. Specie se è lampante ciò che sta succedendo. Inoccultabile ormai.  “Ma la carcassa va spolpata fino all’ultimo pezzo”, dice Celli, con fatalismo. E forse, per rendere l’idea, basterebbe anche ricordare che Netflix produce il film di Sorrentino, partecipa pure ai premi Oscar, mentre la cosa più nuova della Rai sono le teche. Il programma “Techeté”. Il magazzino dei successi che furono. “Questo è il fallimento più chiaro di Mario Draghi”, conclude Celli. “Io non mi facevo illusioni per la verità”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.