Foto Vincenzo Livieri - LaPresse

Addio Viale Mazzini. Intervista all'ex ad Rai

Salvatore Merlo

I partiti, Foa, i Maneskin e la tv di stato. Fabrizio Salini racconta i suoi tre anni "con il rimpianto di non aver completato il piano industriale"

Dice di essere sollevato, ma anche dispiaciuto, forse, perché a fare l’amministratore delegato della più grande azienda editoriale d’Italia ci si abitua. Ci si prende gusto. “Anche se è una fatica che non vi dico”. C’è qualcosa che ha imparato? Una consapevolezza ultima? “Che tre anni per fare l’amministratore delegato della Rai sono pochi. Non chiudi un ciclo. Non fai in tempo a capire dove sei, che è già finita”. E Fabrizio Salini, che da qualche giorno non è più il numero uno di Viale Mazzini, si duole “per non essere riuscito a portare a compimento il piano industriale. E’ rimasto a metà”, dice. Ora toccherà al suo successore, Carlo Fuortes. Vi siete parlati? “Brevemente”. Vi vedrete? “Sì, lo devo mettere al corrente di alcune faccende”. Cosa gli consiglia? “Di proseguire sulla strada del piano industriale che non ho completato. La Rai non deve più ragionare pensando ai contenuti per ciascuna delle sue reti, ma deve ragionare in termini più moderni. E diventare una media company”.

 

Arrivato nel 2018 in Rai dopo diverse esperienze nel privato, Salini lascia la grande bestia di stato dopo tre anni e tre governi. Le montagne russe. Dal bislacco “cambiamento” al governo M5s-Pd, fino a Mario Draghi: le ingerenze, l’alveare di Viale Mazzini e i partiti, soprattutto. Con i loro interessi di sottobottega televisiva. Di marchetta in onda media. “Però le assicuro che non si occupano del prodotto. E questo è un vantaggio. E’ un bene. Non gli interessa”. Lei fu scelto da Luigi Di Maio? “Fui scelto per curriculum e questa è una cosa che va a merito anche di Di Maio. Feci alcuni incontri con lui, con Giuseppe Conte e con Matteo Salvini”. Ai tempi del proconsolato. Poi rapporti, dicono, molto tesi con il Pd. Ma dica la verità: quanto le hanno rotto le scatole? “Quindici anni fa, per Fox, feci ‘Boris’, la commedia che prendeva in giro i tic della Rai. Mai avrei pensato che ci sarei andato a lavorare”. E cosa ha ritrovato di ‘Boris’ nella Rai? “Tanta romanità. Nel bene e nel male”. In Boris c’era la “cagna maledetta”, l’attrice scarsa ma raccomandata dal politico. “Diciamo che le fiction sono molto migliorate. Oggi attraggono anche attori come Alessandro Gassmann”. Dunque non solo “cani maledetti”.

 

Eppure ne sono successe di cose comiche in questi  anni. Roba che sarebbe piaciuta a Mattia Torre, uno degli autori di “Boris”. Ce lo racconta come andò veramente la storia del finto Giovanni Tria, quando al presidente della Rai Marcello Foa arrivò una mail di un tizio che diceva di essere il ministro dell’Economia e voleva un milione di euro? E qui Salini si ferma. Strizza gli occhi. “C’è un’indagine, preferisco non parlarne”. Però l’ex capo della Rai accompagna queste parole con una risata eloquente. Foa pare si fosse scapicollato perché voleva finanziare con quel milione di euro il progetto del finto Tria.

 

Commedia all’italiana, appunto. Come quell’altra storia: quando è stato scoperto che un dipendente s’era rubato dei dipinti di valore a Viale Mazzini e li aveva sostituiti con delle copie. Non l’avrebbe immaginato nemmeno Alberto Sordi. “Quando l’ho scoperto ho cominciato a guardare con sospetto anche i quadri del mio studio”. Poi, fattosi serio: “Il furto è avvenuto molti anni fa, prima che arrivassi io. Noi l’abbiamo soltanto scoperto facendo tutte le denunce. E per evitare che qualcosa del genere possa mai ripetersi ho creato una direzione ‘Beni Artistici’. Però, certo, capisco che siamo nella commedia”. A proposito: com’erano i rapporti con Foa? “Freddi. Con momenti di scontro anche aperto”. E com’è stato il suo ultimo giorno in azienda? E’ vero che gli uscieri non corrono più a spalancare le porte e che il codazzo dei questuanti si dilegua, alla Fantozzi? “Diciamo che gli ultimi giorni prima della scadenza dell’incarico ti danno la possibilità di valutare la qualità umana delle persone che hanno lavorato con te”. E’ come se l’azienda, il gran corpo dotato di vita propria, dicesse: è finita, il potere non è più lui.

 

[Ed è quasi un lampo quando nel ristorante in cui avviene questa conversazione compare un dirigente della Rai, Pier Francesco Forleo. Si avvicina a Salini. Si salutano sorridenti. “Ti mancherò?”. E Salini, ironico: “Non credo proprio”]

 

Cosa non le mancherà della sua esperienza in Rai? “I riflettori puntati addosso, sono uno schivo per natura. In tre anni ho fatto solo quattro interviste, mi pare. Questa è la quinta. Quando sei lì finisci ogni giorno sui giornali. C’è una polemica su tutto. Uno scandalo su ogni cosa minima. Ma ci si abitua”. C’è stato un momento che il Pd le stava molto addosso. Davvero pare volessero cacciarla, soprattutto Gualtieri, l’ex ministro dell’Economia, e Zingaretti. Le cronache erano piene di ricostruzioni al veleno. “Una volta che ti abitui alla politica, resisti”. Però le nomine si fanno così: sentendo i partiti. Persino i programmi di informazione. “Sì e no. Alla fine sei tu che decidi”. Alla Rai lei ha incarnato anche il surreale periodo sovranista. “Mi pare senza particolari esiti negativi. Dicevano che avremmo chiamato Maria Giovanna Maglie. L’avete vista voi in Rai la Maglie?”. No. “Per me le cose che contano sono state altre”. Cioè? “Il prodotto. Per me è stato molto più interessante, e politico, vedere vincere i Maneskin a Sanremo. O essere riuscito a valorizzare Raiplay, la piattaforma on-demand della Rai. Oggi la Rai si può permettere Lundini, che recupera un pubblico che si stava perdendo. I più giovani”. Di cosa è particolarmente fiero? “Di aver coinvolto Fiorello su Raiplay, di avere fatto le prime fiction in streaming, di aver portato Stefano Bollani in prime access, di aver rinnovato il pomeriggio di Raiuno con Serena Bortone e Alberto Matano. Non sono successi solo miei. Stefano Coletta, direttore di Raiuno, è bravissimo”.

 

Dica la verità: ha ricevuto molte raccomandazioni in questi anni? “Ci credete se vi dico che non me ne sono arrivate?”. No. “Però è così. Certo, c’è quello che in riunione ti butta un nome anziché un altro... Ma qualsiasi direttore di testata può confermare che io non ho mai suggerito nomi a nessuno”. Ettore Bernabei sosteneva il metodo della raccomandazione scientifica. Aveva una segretaria che se ne occupava. E diceva di avere assunto così quelli davvero bravi, come Renzo Arbore. “Penso che il lavoro dell’amministratore delegato sia cambiato molto nel tempo. Oggi si fanno moltissime cose, ci si occupa del quadro generale. Non c’è nemmeno l’occasione... Però magari così mi sono perso il nuovo Arbore”.

 

Tra i politici chi le ha telefonato per salutarla? “Solo Di Maio. E mi ha fatto piacere. Una telefonata di commiato, che ho trovato anche formalmente corretta”. Cosa pensa di Marinella Soldi, che sarà presidente, e di Fuortes che prende il suo posto? “Sono due ottimi nomi. Scelti per competenza”. Aldo Grasso definì la commissione di Vigilanza Rai “istituto tardo sovietico”. Non è una cosa da cancellare, la Vigilanza? “Se cambiasse la governance sì. Ma se la Rai ha come editore il Mef e i partiti non può che essere così. E’ giusto. E in taluni casi la Vigilanza per me è stata persino utile. E’ stato un luogo dove confrontarsi con chiarezza con gli intessi della politica. Ed è stata guidata bene in questi anni, credo”. E’ vero che adesso lei intende rilevare, assieme a sua moglie Agata, la società di produzione televisiva The circle? Sorriso a filo d’erba: “Ma lei ci lavorerebbe mai con sua moglie?”.

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.