Abbiamo tutti Sanremo

Simonetta Sciandivasci

Vince la giovinezza, Orietta Berti fa il rock, Ornella Vanoni ci apre in due, Madame incanta. E il futuro invadente si apre per tutti

Quattro appena ventenni con nome danese, divisa fluid, moltissimo rimmel, un talent in bio e un futuro invadente, hanno vinto il festival con una canzone che dice “E buonasera signore e signori, fuori gli attori, vi conviene toccarvi i coglioni, vi conviene stare zitti e buoni”. Lo hanno vinto e hanno pianto e si sono abbracciati e hanno detto, venti volte a testa, no vabbè, porca puttana, cazzo, ma davvero?

 

Hanno cantato con il trucco spostato sulla faccia felice, la faccia che – guardiamola bene, al rallentatore, oggi, domani e dopodomani – fanno i ragazzi quando li lasci fare, dai loro una chance anziché il reddito di cittadinanza, e si rendono conto di quanto sono bravi, e di quant’è bello vincere, e che fanno bene a essere ambiziosi, a non accontentarsi di partecipare – tutte cose ovvie, talmente ovvie che ce le siamo dimenticate. Finito il festival, i Maneskin sono filati in camera loro, come da protocollo anti covid, e hanno twittato: “A questo punto restate svegli, dai, che tra poco siamo a Domenica In”.

 

E questo è l’editoriale sul senso, o almeno uno dei, che ha avuto il festival quest’anno: dimostrare che l’Italia, anche se è un paese di vecchi, può essere un paese per giovani, e può esserlo senza rottamare nessuno, e se i vecchi aprono la porta e fanno entrare i giovani, quelli entrano e si accomodano senza sfasciare niente, divertendosi molto e producendo parecchio ossigeno – abbiamo la fortuna di avere una generazione di ventenni beneducati, che più che alla ribellione pensano a fare cose belle e durevoli: approfittiamone, facciamoli entrare, per favore: soli, credevamo di volare e non voliamo.

 

Ha vinto il rock, dice. Ma il rock è passè. Ha vinto la giovinezza, che è eterna e dice “porca puttana” sullo stesso palco che, alcuni anni fa che a volte sembrano dieci ore e altre volte dieci secoli, fece cambiare un testo sacro come “4 marzo 1943” per via di un paio di “puttane”. Non sarà rivoluzione, però è sempre bello.

Ermal Meta, il favorito, è arrivato terzo, Chiara Ferragni, invece, seconda il secondo posto è di Chiara Ferragni, non di Fedez e Michielin, ed è un’evidenza logica, matematica, pacifica, e non c’è bisogno d’essere Chiara Valerio per capire che chiunque altro ci fosse stato al posto loro, dopo il richiamo al televoto di Chiara, si sarebbe piazzato dove si sono piazzati. Il paese è pienamente rappresentato: ci sono i ventenni fluid, talentuosi, furbi, faccia di cazzo, testaduratestadirapa, belli, capelloni, eloquenti e beneducati; ci sono gli influencer che con l’influenza costruiscono ospedali, risanano i bilanci dei musei, vincono i festival, e sembra ieri che lanciavano lattughe nei supermercati macchiandosi di spreco alimentare e filmavano la prole ancora in grembo macchiandosi di reificazione di nascituro; c’è il cantautore noioso e puro di cuore, che piace perché è una persona perbene, ha avuto una vita difficile, sa scrivere canzoni che ti fanno piangere in Autogrill, anche se non sei tipo da Autogrill – cioè, anche se tu credi di non esserlo.

 

Orietta Berti, che tanti commentatori ha fatto infuriare, specie dopo che la serata delle cover l’aveva portata in cima, è arrivata nona. La sua presenza, insieme a quella di molti altri signori d’esperienza in quota passato, non ha intralciato la giovinezza, anche perché nessuno è stato più giovane di lei che, in cinque giorni, è riuscita a: farsi riportare in albergo dalla polizia avendo infranto il coprifuoco, allagare il bagno in camera sua, salire sul palco con le conchiglie sulle tette, sbagliare il nome dei vincitori e dire che ci avrebbe volentieri cantato insieme “con questi Naziskin” (in una gaffe, un altro editoriale del Festival: ma chi sono tutti questi qua, e come si chiamano, e da dove vengono, e perché non si capisce quello che dicono). Leggendaria. Sproloquiamo di inclusione e poi non riusciamo a concepire che al festival della canzone italiana debbano esserci tutti, cani, gatti e gesùbambini; cani, gatti e vecchi e bambini che si prendono per mano;  cani, gatti e gente che non ha età per amarti. Amadeus ha portato sul palco una quota di tutti, o almeno ci ha provato, e il pubblico ha scelto in quale ordine disporre le voci, chi ascoltare di più, chi ascoltare meno, chi affatto.

 

Questa cosa qui avrebbe dovuta farla il Pd, e invece l’ha fatta Sanremo.

 

Madame, che del festival è stata la rivelazione, è arrivata ottava e ha vinto il Premio Bardotti per il miglior testo, ha cantato di nuovo scalza, in tailleur da sposa, perché il suo amore è la sua voce, e con la sua voce vuole andare a nozze - così ha detto prima di cantare.

 

Il suo amore sei tu, che le dai voce. “Ho fatto un’altra canzone, mi ricorda chi sono, ho messo un altro rossetto sopra il labbro superiore, l’ultimo soffio di fiato e sarà la voce a essere l’unica cosa più viva di me, voglio che viva cent’anni da me”. È un pezzo speculare a “Fai rumore” di Diodato – Sanremo sa anche essere contiguo, un’altra cosa che dovrebbe essere il Pd e invece non è.

 

L’anno scorso abbiamo cantato tutti, con le lacrime in gola, che quando un amore finisce, chiude un giornale, si spegne una voce, e poi, dopo giorni, o mesi, o anni, dopo morti, quella voce, a un certo punto, si rifà viva, a farsi sentire, a fare rumore. Quest’anno abbiamo cantato tutti, con le stesse lacrime, che quel rumore, a un certo punto, si trasforma nella nostra voce. Brava, Madame, di te è tutto splendido: le parole, i piedi nudi, come sposti il velo, come dici che sei bisessuale, come canti, come ti vanno i capelli davanti agli occhi e come non te li sposti, perché sei piccolina, però non sei nata paperina.

 

Ornella Vanoni ha cantato di tutto, ha fermato il respiro e accelerato il polso di tutti. Quando è arrivata a “Non buttiamo via così la speranza di una vita d’amore”, siamo quasi morti tutti, abbiamo deciso che domani richiamiamo quello là e glielo diciamo anche noi: non buttiamo via così la speranza di una vita d’amore, intanto ti faccio la pasta al burro. Quasi novant'anni e non un minuto sprecato. “È stato importante fare questo festival comunque”, ha detto poi, commossa come si sa commuovere soltanto lei: per te, per dirti chi sei, cosa stai sentendo. Fare il festival comunque. Vivere comunque. Amare comunque. Comunque è la parola che ci serve, dice tutto, è molto meglio di resilienza, rinascita, e tutte le altre vuotaggini che blateriamo da dodici mesi che sono valsi dodici secoli.

 

Dobbiamo vivere comunque.

 

Amadeus non farà il prossimo festival e come biasimarlo, dopo che ci ha dato la cosa migliore possibile, la musica leggera anzi leggerissima (questa rubrica, peraltro, si scusa con Colapesce e Dimartino per aver capito tardi quanto bella sia la loro canzone, ma fa parte del gioco: i pezzi di Sanremo si amano a scoppio ritardato) e noi siamo riusciti a rompergli i coglioni con lo share, l’opportunità o la non opportunità di fare un festival durante una pandemia, la vecchiezza di Marcella Bella, la non sufficiente innovatività delle canzoni. Ma lui, martire, sa che il festival serve anche a questo: a darci qualcosa di cui sparlare, persino quando abbiamo voglia di niente, ricordandoci così che abbiamo ancora voglia di tutto. La paura è la vita, hanno ragione i La rappresentante di lista (che brutto nome, però).

God save Sanremo e pure Fiorello e quindi la Rai, dai.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.