il retroscena

Draghi in Transatlantico: i partiti vorrebbero logorarlo, e si logorano

Il premier resta fermo, e i leader che vorrebbero stanarlo per il Quirinale vanno a sbattare

Valerio Valentini

Letta prova a sparigliare in vista del Quirinale, ma si perde Conte, che si perde la Rai e si guarda le spalle da Di Maio. Rixi condanna il governo: "Una delusione. Era meglio quando c'era Toninelli". E Giorgetti sbuffa per l'abbraccio tra Salvini e Le Pen

Sembrerebbe quasi il giorno che precede la catastrofe. Già ore prima che Giuseppe Conte si autoimbavagli al Senato, il leghista Edoardo Rixi mastica amaro su un divanetto del Transatlantico. “Avevo sostenuto la nascita di questo governo con enorme entusiasmo, ma ormai è una delusione totale”. Non sono le nomine appena annunciate da Carlo Fuortes, ma quelle che s’approssimano sull’Anas, a rabbuiarlo. “Nomi di pessima qualità, quelli che girano. E ci tocca pure leggerli sui giornali”. Metodo Draghi. “Metodo babbei, direi. Ve lo dico: era meglio quando c’era Toninelli”. E sembra dirlo con cognizione di causa, lui che del ministro grillino è stato vice al Mit, nel Conte I. “Draghi è convinto di essere come Bossi: parla lui, e tutti muti. Ma la verità è che lui non ha mai voluto fare i conti con la politica. E così a gennaio non riuscirà ad andare al Colle, come vorrebbe, perché qui nessuno lo vota, e dovrà restare a Palazzo Chigi mentre i partiti iniziano la campagna elettorale in vista del 2023. E sarà un disastro”. 

Eccola, dunque, la strettoia. Ecco il pantano. “Ma la verità è che la politica esige i suoi spazi”, dice Enrico Borghi, deputato del Pd che spiega la bontà della proposta avanzata da Enrico Letta. “Il tavolo serviva proprio per creare una camera di compensazione dove affrontare i temi politici, mettendo al riparo la legge di Bilancio”. E se ci sta che un esponente della segreteria difenda la linea del Nazareno, meno scontato è che a condividerla sia chi, come Matteo Orfini, ama spesso andare controcorrente. “Siamo ancora una repubblica parlamentare, no? E allora ci sta che i partiti alzino la voce. L’irritazione di Palazzo Chigi per il tavolo? Se davvero si sono irritati, faranno doppia fatica”.

I partiti provano insomma a ribellarsi a questa narrazione per cui il manovratore non va disturbato, sbracciano per riscattarsi dalla loro marginalità. “La ministra Cartabia, per dire, è circondata da consulenti che le raccontano che va sempre tutto bene”, dice Enrico Costa, deputato calendiano  specializzato nel creare inciampi in Aula quando si discute di giustizia. “La verità è che l’unico modo per segnalare alla Guardasigilli l’esistenza di un problema, ormai è mandare sotto la maggioranza, com’è avvenuto sul trojan”. Intanto il leghista Giuseppe Bellachioma lamenta che “stiamo per iniziare a esaminare il provvedimento sul Pnrr e ancora non sappiamo le regole d’ingaggio: potremo emendarlo? Potremmo stravolgerlo? Boh”.

Di certo non potranno toccare la legge di Bilancio. Che quest’anno inizia il suo iter al Senato e che anche quest’anno verrà consegnata all’altra Camera solo a cose fatte. Sperando che non finisca, pure quella, ostaggio dei bisticci dei partiti. E’ questo il timore che Daniele Pesco, presidente grillino della commissione Bilancio del Senato, ha trasmesso ai suoi colleghi, spiegando che dentro il perimetro della maggioranza ci sarà una continua baruffa tra centrosinistra e centrodestra, con quest’ultima che giocherà di sponda con  FdI, e talvolta anche con Italia viva, per sovrastare i rossogialli. Ed è allora a buon diritto Luigi Marattin rivendica che invece sul fisco, come lui aveva richiesto, si farà un tavolo di maggioranza presieduto dal ministro Daniele Franco: per discutere, a partire da domani mattina, degli 8 miliardi di taglio di tasse in manovra e magari anche della delega fiscale. 

E in fondo è, più in grande, lo stesso scenario che auspicava Letta. Perché “tutti si lamentano dell’inconsistenza dei partiti, e allora serviva una mossa per ridare slancio  al Parlamento”, dice il segretario del Pd, spiegando il senso della sua iniziativa. Solo che qui si arriva al cortocircuito: si arriva, cioè, a constatare come quei partiti che vorrebbero porsi come intransigenti interlocutori di Draghi, quei partiti che vorrebbero stanare il premier in vista della partita quirinalizia, in realtà sono truppe sbrindellate. E così Letta, che voleva guidare la pattuglia, si ritrova abbandonato perfino dal suo alleato. Da un Conte, cioè, che deve misurare ogni suo passo per timore che produca ritorsioni ai suoi danni dentro al M5s, e da un Luigi Di Maio che infatti per ogni passo del suo presidente studia un inciampo, e che soprattutto ha capito che per uscirne vincente, in questa pugna a cinque stelle, gli basta farsi fedele interprete del pensiero di Draghi. “Un uomo straordinario, quando vado all’estero ne parlano tutti entusiasti”, dice il capo della Farnesina ai suoi parlamentari. E così è lui a incaricarsi non solo di sbloccare una trattativa, quella sulla direzione del Tg 1, che Conte voleva impantanare (come già avvenne in estate, sulla prescrizione), ma anche di smontare l’idea del “tavolo” di Letta, fiutando che a Palazzo Chigi non l’avevano vista affatto con favore. E se i rossogialli barcollano, di certo non va meglio a destra, se è vero che ad esempio, di fronte all’ennesima dichiarazione d’amore di Matteo Salvini verso Marine Le Pen, Giancarlo Giorgetti ha allargato le braccia: “Quello che dovevo spiegargli, sulla necessità di entrare nel Ppe, gliel’ho spiegato. Ora mi ritiro in buon ordine, faccia Matteo quello che crede”. E siccome Matteo crede che anzitutto non vada concesso spazio di manovra a Giorgia Meloni, l’intero centrodestra torna a incartarsi. 

E insomma a Draghi, che pure ripete spesse di essere stanco e forse anche un poco deluso, dalle zuffe dei vari leader, basta restare fermo, per vedere i partiti andare in tilt. Vorrebbero logorarlo, e si logorano. Trovano fiato solo quando gli si dichiarano amici, quando incensano la sua agenda. Dopo ore di convulsioni inconcludenti, dopo le dichiarazioni bellicose di Conte, il Transatlantico è vuoto e silenzioso. Il giorno che dovrebbe precedere la catastrofe è un altro giorno consumatosi nell’inedia. Veronica Giannone, ex grillina ora in FI, scuote il capo: “Ho dichiarato che non voto più la fiducia a Draghi, e nessuno se ne è accorto, come se non fosse successo niente”. Già.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.