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Piccola posta

Mai un Papa era andato nella terra di Abramo

Adriano Sofri

Dal 5 all'8 marzo il pontefice sarà in Iraq: una visita storica, che mette al centro geopolitica, sicurezza e tutela delle minoranze religiose. Dovrà funzionare tutto e non sarà facile

Ecco che siamo a meno di una settimana dalla partenza di Papa Francesco alla volta dell’Iraq. Mai un Papa era andato nella terra di Abramo, mai un Papa dei nostri tempi aveva affrontato un viaggio così avventuroso. La visita toccherà tutto il paese, dal nord arabo-sunnita e curdo al sud arabo-sciita, e ciascuna delle tappe è una sfida alla sicurezza militare, e tutte insieme sfidano la sicurezza sanitaria. A Ur, nel nome di Abramo, si svolgerà il 6 marzo, sabato, un incontro interreligioso. Ur e la sua favolosa ziqqurat sono in realtà poco più che una periferia di Nasiryah, e Nasiryah è da lunedì il rinnovato teatro di manifestazioni di giovani contro il governatore e i partiti e le loro bande armate: martedì era stato ucciso un manifestante sedicenne, giovedì uno di 25 anni, un centinaio i feriti.

 

All’altro capo, giovedì gli Stati Uniti hanno bombardato basi e trasporti di munizioni delle milizie sciite irachene di obbedienza iraniana Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, appena oltre il confine siriano, fra l’irachena Qaim e la siriana Boukamal – l’ultimo centro liberato dall’Isis: una rappresaglia ai missili piovuti il 16 febbraio sulla curda Erbil, che avevano ucciso due persone e ferito altre, impiegati presso la coalizione o americani. Il Pentagono si è premurato di precisare che i bersagli erano stati individuati con certezza, e con la collaborazione dell’intelligence del governo iracheno (che non deve essersene rallegrato); che erano stati consultati gli alleati della coalizione; e che si era voluto salvaguardare il triplo proposito di non lasciare impunite le provocazioni delle milizie filoiraniane, di non chiudere la porta alla ripresa di un dialogo con l’Europa e Teheran sul nucleare, e di non accrescere le difficoltà di un governo di Baghdad che già affoga. Versioni diverse fanno oscillare il bilancio del raid fra un morto e parecchi feriti e 17 o addirittura 22 morti (così fonti mediche o l’Osservatorio siriano sui diritti umani): tutti militanti al Shaabi. Una differenza incidente. D’altra parte, una ritorsione americana che avesse colpito Baghdad o un’altra delle piazzeforti dei miliziani in Iraq, avrebbe ulteriormente aggravato l’allarme sulla visita del Papa.

 

   

 

La trepidazione attorno al viaggio e il coraggio personale di cui Francesco, ottantaquattrenne, fa prova, inducono ai paragoni con il primo Francesco e la sua inerme visita a Damietta al sultano al Malik al Kamil, nipote del curdo Saladino. Giovanni Paolo II, altrettanto e più agonisticamente coraggioso, aveva dovuto rinunciare in extremis al viaggio in Iraq nel 2000, alla vigilia del Giubileo. A Ur era già allestito l’eliporto per il suo atterraggio. Per quello scacco il Vaticano avrebbe imputato gli Stati Uniti, e alla fine il ripensamento diffidente di Saddam.

 

Ufficialmente, la sicurezza di Francesco è affidata per intero al governo iracheno. Il governo iracheno è una finzione inetta a garantire la sicurezza propria, se non attraverso le armi reciprocamente puntate delle sue fazioni. Diversa com’è, la vicissitudine del nostro ambasciatore Attanasio e dei suoi accompagnatori nel santuario di Virunga ha allungato la sua ombra fin su questo viaggio. Il problema non è solo la sicurezza personale del Papa, naturalmente. Non sono pochi, né solo da una parte, quelli che potrebbero vedervi un’occasione impareggiabile di propaganda delle loro fedi. E poi c’è la pandemia nel suo punto più virulento, e la messa per diecimila programmata nello stadio di Erbil. In Vaticano, dove si continua a tener fermo il programma, la preoccupazione dev’essere altissima.

 

Ma sull’altro piatto della bilancia sta l’aspettativa dei cristiani iracheni, un popolo ridotto forse a un quarto del suo numero al tempo della dittatura sunnita di Saddam, da quasi vent’anni perseguitato e umiliato e cacciato dalle sue case. Ho letto che dopo il viaggio vietato di Papa Wojtyla due prelati andarono a Ur sulle sue orme mancate e raccolsero un pugno di quella terra che avrebbe baciato, e gliela portarono. Non so se nel cuore del Papa Francesco passi in questa vigilia la tempesta del dubbio: ma se riuscirà ad andare e a toccare la terra, l’avrà fatto non per sé o per la maggior gloria della sua chiesa.

 

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