Soldati iracheni pattugliano il centro di Baghdad per far rispettare le misure anti covid (Ansa) 

Piccola Posta

Missili, Covid e lunga mano iraniana. Ecco l'Iraq che troverà Francesco

Adriano Sofri

Il viaggio del Pontefice dal 5 all’8 marzo. Dovrebbe avvenire a Kerbala l’incontro storico, benché in forma privata, con il Grande ayatollah Sayyid Ali al Husayni al Sistani

Parliamo ancora del progettato viaggio di Papa Francesco in Iraq e nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, dal 5 all’8 marzo. Della pandemia, prima di tutto. Il governo iracheno, dopo che si è annunciata una violenta impennata della variante cosiddetta britannica, ha fissato una chiusura totale nei tre giorni del fine settimana, dal venerdì, il giorno festivo musulmano, a domenica, e negli altri quattro giorni il coprifuoco dalle 8 di sera alle 5 di mattina. C’è chi insinua che le misure assecondino un’intenzione poliziesca, nel clima di rivalità delle bande politiche e di insofferenza sociale. I numeri del contagio sono alti, e indicano una virulenza maggiore, oltre che nella capitale Baghdad, nelle due città sacre sciite, Kerbala, il luogo del martirio dell’imam Hussein, e Najaf, il centro teologico in cui dovrebbe avvenire l’incontro storico, benché in forma privata, fra Papa Francesco e il Grande ayatollah Sayyid Ali al Husayni al Sistani. A complicare le cose è venuta la notizia che anche il vegliardo sciita, 90 anni, è positivo al Covid, in condizioni definite “stabili”. Ieri a Najaf si è tenuta una preghiera collettiva di augurio per la visita del Papa.

 

I missili di martedì che hanno colpito la base militare vicino all’aeroporto di Erbil (e alla “Casa Italia”), uccidendo un impiegato di doppia cittadinanza curdo-americana, possono aver avuto di mira, oltre che la nuova presidenza americana, la visita del Papa? Un incontro fra un ospite straniero e il venerato Sistani è un evento rarissimo. E Najaf rivaleggia con la iraniana Qom nel primato religioso sulla fede sciita: una rivalità che non si è mai spenta, né nella gerarchia, né fra la gente: la gran maggioranza degli iracheni è musulmana sciita come l’iraniana, ma è araba e quella iraniana è persiana. La lunga mano iraniana, sempre più corta e stretta del resto, è la posta dell’intera partita irachena. Gli stessi partiti infeudati all’Iran, e le bande armate cui ormai fanno capo, sono accanitamente divisi fra loro secondo l’obbedienza a fazioni diverse di Teheran. L’Iraq dovrebbe tenere elezioni politiche anticipate il prossimo 10 ottobre, dopo averle posticipate già di quattro mesi. I caporioni si dividono fra fautori di qualche controllo dell’Onu sul loro svolgimento e sedicenti custodi della sovranità nazionale: al centro di tutto sta la corruzione smisurata e la guerra per bande, che ha suscitato soprattutto nel sud sciita e nella capitale audaci e sanguinose rivolte di giovani e anche di donne. Muqtada al Sadr, che si pretende interprete della volontà di al Sistani e continua a mettere in piazza a Baghdad prove di forza dei suoi seguaci, dichiara che qualunque risultato che gli neghi la vittoria sarà invalido. 

 

In questo clima, Erbil conserva e anzi accresce un proprio peso strategico. È la parte della regione curdo-irachena più legata all’appoggio americano e occidentale, mentre la parte concorrente, quella di Suleimanya, divisa da lotte di clan, cede alla pressione del confinante Iran. Kirkuk, il gioiello favoloso della corona curda, è oggi occupata da otto divisioni di milizie al Shaabi, le più fanatiche, che vi spadroneggiano, e ne hanno fatto una discarica, con l’elettricità pubblica ridotta a due ore al giorno. C’è un’ennesima spinta all’arabizzazione della città, e le minoranze tradizionali, turcmena e araba, si compiacciono dei nuovi padroni in odio alla maggioranza curda. Al contrario, Erbil attraversa una specie di boom, soprattutto per l’immigrazione di arabi iracheni agiati che legalmente acquistano case e immobili commerciali, e contano sulla sua stabilità. Nel Kurdistan del Pdk dei Barzani, quello di Erbil e di Duhok, l’Iran vede con insofferenza l’ostacolo geopolitico alla via libera vagheggiata fino al Libano. 

 


Un abbandono dell’Iraq, e a maggior ragione del suo Kurdistan, da parte degli americani e della Nato, non è realistico, e al contrario si annuncia un rafforzamento. La minaccia dell’Isis non è affatto uno spauracchio, benché se ne siano fatti tanti usi. Nell’Iraq di oggi la minoritaria ma consistente componente araba sunnita, quella che era al potere con Saddam, non riesce a essere influente, e questo vuoto continua ad alimentare un favore sociale o una rassegnazione al fanatismo jihadista. E anche i sospetti sulla disposizione degli attori internazionali a giocare di nuovo con quel fuoco.