Carlo Calenda e Matteo Renzi (Ansa)  

Spesso a sinistra

Il destino di un guastafeste. Renzi, Calenda, e quelli che rompono le regole

Francesco Cundari

È una categoria ben precisa della politica. Per appartenervi bisogna essere uno strano incrocio tra bullo e piacione, al tempo stesso secchione e teppista, suadente e aggressivo, popolano e aristocratico

La storia della sinistra è ricca di guastafeste, pur essendo molto povera di feste. Trattandosi di una categoria politica, vorrei aggiungere che nella definizione di guastafeste non c’è nulla di personale, ma sarebbe una mezza verità. Perché la personalità conta, eccome. Per riuscire nel ruolo, infatti, occorrono dosi massicce di fiducia in se stessi, ma anche un certo innato desiderio di piacere agli altri; un carattere forte, cioè cattivo, unito a una buona dose di insofferenza e irrequietezza, senza le quali nessuno si metterebbe in testa, solo contro tutti, di dare la scalata a un partito, a una coalizione, a un paese; bisogna essere uno strano incrocio tra un bullo e un piacione, al tempo stesso secchione e teppista, suadente e aggressivo, popolano e aristocratico. E insomma era chiaro fin dal suo primissimo apparire sulla scena politica che per ragioni biografiche e caratteriali, non meno che per predisposizione e aspirazioni, Carlo Calenda era semplicemente perfetto per la parte. Forse persino più di Matteo Renzi.

 

Per chi avesse avuto dei dubbi, il risultato delle amministrative romane dovrebbe averli dissipati. Nell’occasione, secondo Goffredo Bettini, il leader di Azione avrebbe dovuto emettere “i suoi ultimi rantoli”. Con la consueta capacità profetica, infatti, il massimo teorico dell’alleanza tra Pd e Cinque stelle aveva previsto: “Domenica per lui sarà tutto finito”. Ma erano in tanti a ripetere che al momento di aprire le urne si sarebbe vista la differenza tra twitter e il mondo reale (concetto che va peraltro fortissimo su twitter). È finita che a Roma Calenda ha preso più voti della sindaca uscente, Virginia Raggi, e la sua lista più di tutte le altre (è anche vero che, a differenza degli altri, di liste ne aveva una sola). Sta di fatto che i toni dei suoi ex compagni di partito del Pd si sono ammorbiditi parecchio, almeno rispetto a quelli degli ultimi giorni di campagna elettorale, in cui gli attacchi avevano preso di colpo un sapore antico, con le accuse al candidato sindaco di essere “di destra”, anzi proprio una quinta colonna della Lega, per via degli elogi riservatigli da Giancarlo Giorgetti in un’intervista alla Stampa. 

 

Da Valeria Fedeli (“La #Lega scende in campo a Roma per #Calenda per riportare di nuovo la città a destra”) a Andrea Orlando (“È poco interessante discutere se Calenda sia o meno di destra, è più obiettivo riconoscere che Calenda oggi è il candidato della destra e della Lega in particolare”), il coro si era fatto subito assordante, come se le elezioni romane dovessero decidere la collocazione del paese nella Guerra fredda. Una campagna che non è escluso abbia contribuito ad avverare almeno in parte la propria profezia, convincendo qualche elettore di destra che quello era il cavallo giusto su cui puntare.

 

Del resto, la china che stava prendendo la questione era già evidente da un po’. In genere, perché un candidato al consiglio municipale faccia parlare di sé, come minimo deve inneggiare a Hitler in diretta tv (e non sempre è sufficiente nemmeno questo). Nel caso della lista di Calenda, invece, è bastato che sfoggiasse abbigliamento e orologi costosi, confermando la caratterizzazione del suo leader e di tutto il suo movimento come incarnazione del nuovo nemico di classe. Solo che in questo genere di campagne non c’è rimasto molto del significato che avevano un tempo, e sbagliano i tanti che ci leggono ancora il residuo di un’ideologia comunista ormai scomparsa da decenni. Sbagliano perché il vero punto di attacco non è economico-sociale, ma moralistico. Non è l’appartenenza di classe, ma la mancanza di buon gusto e sensibilità. Non è il fatto di essere ricchi, ma di essere cafoni, arricchiti, pariolini, che è il modo in cui una certa parte della sinistra – mediamente assai più ricca dei suoi bersagli – traduce istintivamente le proprie idiosincrasie e le proprie inimicizie nei confronti degli avversari (scavalcandoli a destra di molte lunghezze, peraltro, ovviamente senza rendersene conto).

 

Una parte piccola ma rumorosa, fatta in buona parte di giornalisti e professori universitari che si trovano perfettamente a proprio agio con chi ha sottoscritto i decreti sicurezza di Matteo Salvini, alla sola condizione che accetti ora di recitare la commedia assieme a loro, così che gli uni e gli altri possano legittimarsi reciprocamente, nelle loro pose da dolenti eruditi in cerca di fortissimi punti di riferimento cui aggrapparsi, dinanzi a tante ingiustizie sociali, di fronte a cotante diseguaglianze, davanti a un simile indice di Gini.  Va anche detto che il leader di Azione, come ogni buon guastafeste, ha sempre fatto pochissimo per farsi benvolere, e non solo dai suoi ex compagni di partito. 

 

Prendiamo ad esempio una giornata qualsiasi nella vita di Carlo Calenda: giovedì 7 ottobre. Quarantotto ore fa. Ore 8.22 am. Tweet a Giuseppe Conte: “@GiuseppeConteIT ieri mi ha attaccato spiegando la sua magnifica storia di coerenza e serietà. Per essere chiari considero Conte campione di qualunquismo e trasformismo. Non gli ho mai sentito fare un ragionamento interessante o affrontare una questione con competenza”.

Ore 11.14 am. Tweet a Guido Crosetto: “Dietro il tuo buonismo acchiappa tweet resta il fatto che non sei in grado di tagliare il cordone con una destra inquinata e anti europea. Dopo che avrai mostrato la stessa intransigenza che io vs i 5S vs l’accozzaglia di incompetenti e criptofascisti di FDI potrai dare lezioni”.

Ore 12.50 am. Tweet a Carlitos1991 (che gli domandava, testualmente: “Sì ok, ma tu fondamentalmente, chi cazzo sei? Oltre a prendere schiaffi politici a destra e sinistra da sempre, cosa hai fatto? Santa pazienza che pagliaccio”): “Amico, quello che ho fatto lo trovi su Wikipedia. Leggi, poi mi spieghi cosa hai fatto tu. E poi parliamo. Perché i cittadini, anche quelli che si comportano da idioti, hanno diritto a un dialogo”.

Ore 2.12 pm. Tweet a Giorgia Meloni: “La prossima volta fai meno la fenomena, dai retta a Silvio e candida Bertolaso. Oppure candidati tu e vediamo cosa sai fare. Perché a chiacchiere sei bravissima ma a governare… Non pervenuta”.

Ore 11.30 pm (circa), Piazza pulita. Ospite di Corrado Formigli, c’è anche la rappresentante delle sardine calabresi, Jasmine Cristallo, che in effetti, rivolgendosi al leader di Azione, la prende un po’ larga, rimproverandogli di fare pure lui del populismo, però “classista”, e di guardare al popolo dall’alto della sua “torre eburnea”. Formigli (tagliando corto): “È chiara la domanda”. Calenda: “No, ma non è una domanda, è un pippozzo senza capo né coda”.

 

Insomma, è evidente che è nato per quella parte. Nessuno è più tagliato di lui per fare il guastafeste, in un paese in cui del resto gli anticonformisti sono sempre una maggioranza schiacciante, e stanno sempre bene attenti a non pestarsi i piedi tra loro. Calenda no, di questo, comunque la pensiate su di lui e sulle sue idee, dovete dargli atto: lui litiga con tutti.  Ma chiunque sia chiamato di volta in volta a interpretare il ruolo del guastafeste deve sapere che il copione prevede un percorso ben definito. Una traiettoria che è possibile individuare agevolmente seguendo l’aggettivazione utilizzata dalla stampa nel corso del tempo: da “eretico e coraggioso spirito libero” a “egomaniaco pericoloso per la democrazia”, attraverso tutta quella gamma di sfumature intermedie che vanno da “simpatico gianburrasca” a “irresponsabile sfasciacarrozze”.

 

In una prima fase il nuovo arrivato, venuto a rompere le uova nel paniere al gruppo dirigente in carica, gode sui mezzi di comunicazione di un apprezzamento inversamente proporzionale a quello di cui gode il suddetto establishment di partito. Dunque, quasi sempre, altissimo. In altre parole, data la scarsa considerazione di cui gode solitamente il festeggiato, chiunque arrivi a rovinargli la festa viene immediatamente preso in simpatia. Senza andare troppo indietro nel tempo – giusto una ventina d’anni – è stato così nel 2002, quando Piero Fassino (appena eletto leader dei Democratici di sinistra in un regolare e difficile congresso, forse il più serio degli ultimi decenni) e Francesco Rutelli (che il suo partito, la Margherita, l’aveva da poco fondato) assistettero allibiti allo sfogo di Nanni Moretti, a tarda sera, davanti a una piazza ormai semivuota, al termine di una manifestazione che certo non aveva raccolto le masse nemmeno nell’ora di punta. “Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”, scandisce. E dal giorno dopo “l’urlo di Moretti” diventa, incomprensibilmente, un evento politico. Basta dire che Repubblica gli dedica l’intera prima pagina, con foto del regista sul palco e ben quattro editoriali. Un evento attorno al quale ruoterà il dibattito nel centrosinistra per anni (in attesa che arrivi Beppe Grillo ad affinare, diciamo così, il messaggio). 

 

Siccome la politica italiana ha un carattere ricorsivo, ma i suoi corsi e ricorsi non hanno nulla a che fare con la politica, lo stesso identico meccanismo si ripresenterà nel 2010 con Matteo Renzi e la campagna per la rottamazione del gruppo dirigente del Pd, pur essendo la posizione del giovane sindaco di Firenze, per molti versi, esattamente opposta a quella di Moretti e dei suoi sostenitori (i versi che hanno in comune sono la polemica anti-partito e spesso anche apertamente anti-politica, e conseguentemente il bersaglio privilegiato: Massimo D’Alema). Anche qui, in quell’agosto 2010 in cui Renzi lancia la parola d’ordine della rottamazione, si tratta di un gruppo dirigente da poco riconfermato da un regolare congresso, e di un segretario, Pier Luigi Bersani, eletto (trionfalmente) con tanto di primarie.

 

Ma la regola non conosce eccezioni: appena comparso sulla scena, il guastafeste gode di una copertura mediatica e di un sostegno trasversale pari al desiderio di rovinare la festa al padrone di casa. Dunque, a questa prima fase, segue inevitabilmente e implacabilmente la seconda: in caso di vittoria, una volta cioè che il legittimo leader della sinistra è diventato lui, e dunque è lui il festeggiato, il copione rimane identico, ma le parti si rovesciano.  E così ecco il rottamatore di ieri, quello che voleva “tagliare le poltrone”, diventare il massimo sostenitore del primato della politica, della competenza e del coraggio delle scelte impopolari di oggi. E i rottamati di allora diventare i rottamatori del giorno dopo, a braccetto con il Movimento 5 stelle e con il Fatto quotidiano, e con tutti coloro che hanno passato i vent’anni precedenti cercando di linciarli. Perché non c’è soperchieria che un politico di sinistra non sia disposto a perdonarti, a condizione che tu lo aiuti a perpetrarla, con gli interessi, ai danni del suo rivale.
Lo schema di gioco prevalente rimane sempre lo stesso, ed è semplicissimo: tutti contro uno.

 

Di solito, chi viene a trovarsi nella sgradevole posizione dell’uno, prima o poi, finisce per postare su facebook una qualche involontaria variante dell’apologo della volpe e l’uva, nella tipica forma epigrammatica dell’automotivazione da cioccolatino: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”. Aforisma che contiene certamente un grano di verità, ma è una verità che, per quanto riguarda la sinistra, vale in entrambe le direzioni, con occasionali variazioni nel finale, e che si potrebbe dunque tradurre così: prima vinci, poi ti combattono, poi ti deridono e infine ti linciano.
Calenda non ha ancora vinto, ma è sulla buona strada.