ANSA/UFFICIO STAMPA 

Il talento di mr Renzi

Paola Peduzzi

Una passeggiata sui monti con il senatore di Italia viva e gli studenti della sua Scuola di formazione politica, tra vertigini, porte scorrevoli, dichiarazioni di felicità, ammissioni e idee sul futuro dell’ex “fratello piccolo” degli italiani 

Matteo Renzi soffre di vertigini ma fa finta di niente e sale su quattro cabinovie di fila per raggiungere il ghiacciaio Presena, sopra a Ponte di Legno, assieme agli studenti della sua Scuola di formazione politica che s’intitola “Meritare l’Europa”. “Sono felice qui”, dice, e se la misura della felicità è l’energia, l’entusiasmo, la generosità nel concedersi a selfie, autografi e domande, allora sì, Matteo Renzi è felice. Parrebbe persino a tratti pacificato, che è forse la cosa che meno ti aspetti da questo politico diventato ex premier troppo presto e troppo giovane – ancora tutto da giocarsi e il primo premio, Palazzo Chigi, già alle spalle.

La Scuola di formazione è alla sua terza edizione, “abbiamo scelto Ponte di Legno perché è un dito negli occhi alla Lega: questo è il palazzetto di Bossi”, dice Renzi camminando spedito verso gli impianti, mentre chiede ai ragazzi intorno: da dove vieni, cosa fai, è il primo anno qui, ah no, il terzo, mi ricordo di te. A ognuno spiega (in tutte le lingue che sa, il suo mix “globish” come lo chiama lui, perché circa cinquanta dei quattrocento studenti sono stranieri) che tre giorni di scuola sono troppo pochi, erano meglio quattro, “non riusciamo a fare una partita di calcio o a suonare un po’ di musica”, e poi urla il nome di uno dei suoi e dice: è colpa sua (è Mattia Peradotto, un giovane ingegnere che è sempre più il numero due di Renzi). Ci sono due correnti di pensiero sulla riduzione della durata della scuola: la prima riguarda il contenimento del budget, il tesoriere Peradotto ha tagliato una notte di soggiorno. La seconda risponde alla cosiddetta teoria del romanticismo renziano: “Non più di due notti altrimenti si innamorano”, copyright Francesco Bonifazi.

“Questa scuola attraversa tre edizioni con tre governi – dice Renzi – Il governo Conte 1, che era alla fine e io ero ancora nel Partito democratico, il governo Conte 2 il secondo anno a Castrocaro, e il governo Draghi adesso. La scuola nel frattempo è cambiata, ci sono molte più richieste e l’età dei partecipanti si è abbassata, ma a me interessa comprendere come siamo cambiati noi e come sta trasformandosi la politica italiana”. Questa è la scuola di Italia viva, con la partecipazione di Renew Europe, il gruppo europeo dei liberali, e del Partito democratico europeo, ma l’ambizione di Renzi sarebbe quella di proporre una formazione apartitica: “Mentre stavo scendendo ho incontrato un ragazzo che mi ha raccontato che partecipando alla scuola negli scorsi anni ha preso il coraggio di buttarsi e di candidarsi: ora è in un consiglio comunale con il Pd”.

Nelle chiacchiere con gli studenti, tra ghiacci, rifugi e laghetti blu, il confronto e lo scontro con il Pd ricorre spesso: c’è chi prende le distanze, chi si lamenta di essere visto male in quanto renziano, chi parla invece di famiglia allargata, il nemico non è rosso, è nero. Tutti ambiscono a una carriera politica, si preparano ad altri mestieri (l’età di ingresso è 16 anni: alcuni sono ancora al liceo, fai domande sul futuro e sgranano gli occhi, “intanto imparo”, dice una ragazza con la voce di vetro), ma la passione la sentono chiara e urgente, e la prendono sul serio. “Qui c’è un cinquanta per cento di talent scout – dice Renzi – e il resto è creare una coscienza critica e civica, degli elettori consapevoli prima ancora che degli eletti competenti”. 

 

Il cacciatore di talenti è un mestiere che Renzi sente suo, all’inizio ha un certo pudore a parlare del proprio, di talento, in seguito lo farà, ma qui siamo soltanto alla prima cabinovia, le rocce del ghiacciaio non si vedono, la vertigine deve ancora incominciare. Renzi è nei panni dell’educatore e rievoca la sua formazione da boyscout: i ragazzi intorno hanno il potere di gettarti nel futuro ma anche di muovere i ricordi, in un misto di nostalgia e di sollievo, e dev’essere la compagnia a trasformare alcuni tratti di questa passeggiata in un racconto delle sliding doors attraversate dell’ex premier, sul confine tra la vocazione politica, la propensione al rischio, la luna di miele con l’Italia, le campagne d’odio, l’arte di mutare l’imprevedibile in tempismo perfetto.

“Quando semini non hai un’aspettativa definita di quel che deve venire fuori – dice Renzi – Ancor più in un momento di caos e di incertezza com’è questo. La politica oggi è un casino, lo è in Italia e questo non è una novità, ma è sempre più ingarbugliata dappertutto, ci sono sorprese e rivolgimenti, c’è l’Spd in Germania che rischia di prendere la cancelleria e l’eredità della Merkel, c’è un camaleonte come Boris Johnson in Inghilterra che vuol rendere credibile una cosa incredibile come la Brexit. La politica è un’altalena”, il talento è non chiedere di scendere al momento sbagliato.

 

Il mondo attorno a noi cambia “a un ritmo impressionante”, dice Renzi, “non è che puoi immaginare in una scuola di formazione politica di creare materie o skill specifiche. Puoi gettare dei semi e contare sul fatto che questi studenti ne facciano tesoro, ognuno nel proprio ambito e nel proprio paese, perché questa è un’esperienza transnazionale”. Il talento secondo questo cacciatore è dare un’occasione, “seminare e seminare, stimolare anche”, poi il tempo del raccolto verrà e con tutta probabilità ci stupirà. “Il talento è storicamente una moneta che puoi far fruttare o meno. I ragazzi sono molto meglio di come vengono descritti, c’è una visione doppia nei loro confronti: c’è chi li vede come una generazione sfigata, complessata, problematica e magari gli dà il reddito di cittadinanza. Io invece vedo dei ragazzi tosti, impegnati, che vogliono giocarsela. Sono qui per dare gli strumenti e l’occasione, poi quello che sarà sta anche a loro. Quando facevo il boyscout magari preparavo dei programmi e dei progetti studiatissimi e meticolosi, poi mi accorgevo che in realtà altri avevano adorato qualcosa cui io non avevo dato alcun peso, mi sorprendevano. Qui è la stessa cosa, creo un vivaio con quello che mi sembra utile”. Delle occasioni offerte finora, l’intervento che gli studenti citano come il preferito è quello di Roberto Cingolani, in cui il ministro della Transizione ecologica ha denunciato gli ambientalisti radical chic e gli ambientalisti oltranzisti creando un gran chiasso ovunque, soprattutto tra quelli che non perdono occasione di tirare fuori i “gretini”, espressione di cui vanno incredibilmente fieri. Cingolani è piaciuto perché è stato diretto e concreto, spiegano alcuni studenti, sintesi esatta di quel che Renzi intende quando dice e scrive (un libro) “controcorrente”. “Siamo venuti qui, nel palazzetto di Bossi, perché ci piace provocare. E perché qui c’è una storia: c’era un sindaco, Mario Bezzi, che è intervenuto il primo giorno, che nel 2012 mi invitò a Ponte di Legno per rispondere a un comizio di qualche giorno prima di Matteo Salvini: riempimmo il palazzetto, da Salvini c’erano ottanta persone. Bezzi creò un seggio qui al ghiacciaio per le primarie del Partito democratico: presi il 75 per cento contro Pierluigi Bersani. Vorrei tornare a quello spirito lì, un posto che mi piace, un posto che ha un significato, un dito nell’occhio alla storia della Lega per dire che sul reddito di cittadinanza noi siamo credibili e loro no. Anche su Quota cento è la stessa cosa: tutti attaccano Claudio Durigon per le frasi vergognose che ha detto su Mussolini, e fanno bene, lo abbiamo fatto anche noi, ma Durigon è lo stesso che ha fatto Quota cento, ma lì andava bene ai Cinque stelle e a una parte di sinistra del Pd. Quindi al fondo veniamo qui, torniamo qui, per essere liberi. Liberi liberi liberi”. Il talento è occasione, “la mia storia personale – dice Renzi – nonostante l’immagine che ho (usiamo aggettivi non citabili per definire questa sua immagine pubblica) è quella di uno che in più di una circostanza ha scommesso su alcune persone, a volte sbagliando”. La costruzione di questo talento, “l’attitudine di vivere da protagonisti mettendo in gioco tutto quello che hai”, ci piace guardarla salire, parafrasando Fossati, e tra vertigini, battute, aneddoti clintoniani, blairiani, macroniani (su Joe Biden nessuno ha voglia di essere leggero), in fondo scorgiamo finalmente il ghiacciaio.

ANSA/Twitter Matteo Renzi 

Al rifugio i tavoli sono apparecchiati, la luce di settembre si riflette sul ghiaccio, l’ansia della cabinovia è sospesa (si dovrà scendere, terrore assoluto, ma tra un po’), la giacca pesante non serviva e c’è polenta per tutti. Ci imbattiamo nella prima sliding door, che è l’incontro con qualcuno che ti dice: ce la puoi fare. Che succede se quell’incontro non avviene o avviene in un momento che non è più quello giusto? Renzi vorrebbe urlarlo ai suoi studenti, uno per uno, ce la puoi fare. Li invita a crederci, ad appassionarsi, fa il movimento con le dita che indica “zoomare” che è diventato il segno distintivo di questa edizione: non si clicca, si allarga, si guardano i dettagli, si approfondisce, non ci si ferma alla superficie. 

Per quanto riguarda se stesso e la costruzione della propria occasione, Renzi dice che “l’esperienza da arbitro è stata la più formativa. Mi è servita per imparare a decidere: hai una frazione di secondo e devi prendere una decisione. Se ce la fai, molte incertezze e insicurezze tipiche dei 17, 18 anni te le levi, anche perché hai a che fare con persone più grandi di te, devi decidere ed essere pure credibile. Poi l’arbitraggio mi ha dato la capacità di resistere agli insulti: quando mi insultano i Cinque stelle non hanno idea di cosa significa andare su un campo di periferia in seconda categoria a fare l’arbitro” (segue elenco degli insulti presi da ragazzo: sono tanti e coloriti, ma resta l’impressione che gli insulti contemporanei abbiano lasciato segni più profondi). Ci soffermiamo sull’adrenalina del prendere le decisioni, essenza dell’esercizio del potere, con il suo corollario di responsabilità inevitabile, che è il lato gravoso della vita del comandante. “Io non è che amo decidere – dice Renzi – Tante volte mi scopro a pensare come sarebbe la vita senza doversi assumere decisioni e responsabilità, soprattutto adesso che sto diventando più vecchio. Nei momenti in cui non hai il dovere di decidere tu, vivi più tranquillo. Per carattere sono uno che, se deve, fa”. 

Se vivere più tranquillo fosse stato l’obiettivo di Renzi, probabilmente non saremmo qui a bere acqua naturale quando ogni cosa attorno grida: ci vuole un bicchiere di vino, ma a lui non piace nemmeno il termine “carriera politica”. “Per me la politica è una vocazione, e io ho sempre avvertito la mia vocazione, che qualcuno chiama talento e qualcuno chiama destino, come una chiamata. La responsabilità è l’altra parte: è la risposta. Non mi sono mai tirato indietro e per carattere ho sempre preferito assumermi dei rischi piuttosto che cercare di vivacchiare. Non mi piace quando si dice che chi si assume dei rischi è spericolato. Io non voglio una vita spericolata, è il motivo, tanto per citare il recente passato, per cui ho aspettato a dare l’assalto a Conte: l’avrei voluto dare già nel 2020, ho atteso l’inverno 2021. Mi dicono: se tu avessi rischiato meno, non saresti mai uscito da Palazzo Chigi, non in quel momento almeno. Io rispondo: se non mi fossi assunto dei rischi, non ci sarei mai arrivato, a Palazzo Chigi”. 

Renzi sostiene che “tirare a campare” era un’attività da Prima repubblica, cita Andreotti e il suo adagio sul tirare le cuoia, ma “il mondo oggi chiede rapidità, cambia”, e ora si sentono chiare, tra il tintinnare di posate e bicchieri, l’impazienza e la voracità, il desiderio di non perdere il passo, di non perdere tempo, le occasioni del passato e le incognite del futuro. Così ci tocca parlare di quello che, visto in mezzo agli studenti, nella passeggiata, nella corte che segue affettuosa il suo re e cerca di carpirne le parole e i sussulti, sembra un fattore lontano anni luce, quasi inconcepibile, ed eppure è la vita quotidiana di Matteo Renzi, fuori dal ghiacciaio e oltre le vertigini: com’è che il politico più talentuoso che abbiamo avuto da tempo in Italia è diventato il più impopolare?

 

 “Se lasciassi spazio alla mia innata arroganza – dice Renzi – direi che il talento resta e l’impopolarità passa”. Ma passa? “Come è passata la popolarità”. Però i cicli di vita di popolarità e impopolarità non sono uguali, la prima è effimera e la seconda è vischiosa, resta appiccicata. “Attenzione: non tornerò mai a essere il fratello minore degli italiani. La mia forza è stata questa: a 39 anni ho preso in mano il paese, ero il fratello piccolo dell’Italia, avevo la forza di fare alcuni cambiamenti. Oggi vivo una dimensione diversa, magari tornerò a essere apprezzato quando sarò, che ne so, nonno”, dice, e la mente corre a quell’app agghiacciante che ci mostrava come diventeremo da vecchi, una moda durata pochissimo, giusto il tempo per accorgerci quanto poco divertente fosse vederci con quei troppi anni. “Una delle caratteristiche della mia arroganza è che vivo in un grandissimo stato di libertà. Vedo altri che, quando lasciano incarichi importanti, si deprimono o si incupiscono, io invece assaporo il gusto della libertà”. La spensieratezza non sembra la caratteristica più calzante nella descrizione di Matteo Renzi: è l’arroganza a tenerlo su o forze il suo stato di perenne incazzatura? “Sono dipinto sempre come uno incazzato nero – dice – Però io amo la polemica, per una battuta mi farei scorticare la pelle, sono uno che scherza, ma non sono uno che s’incazza. Se dovessi farlo, dovrei stilare un elenco di ragioni e macerarmi il fegato, per gli errori miei e per la cattiveria degli altri”. Nella narrazione “io sono uno rancoroso che rosica perché non è più a Palazzo Chigi. Ma questo racconto si scontra con la verità – dice Renzi, più infervorato: si starà arrabbiando? – Se io avessi voluto dare la priorità a restare a Palazzo Chigi, non avrei rischiato quello che ho rischiato. Oggi si dice: ah, adesso Renzi fa il mago con il due per cento. Ma purtroppo il sistema che è venuto fuori con la bocciatura del referendum permette a chi ha il due per cento, se è capace, di giocarsi una partita. Il sistema democratico mantenuto ahimè in vita dalla sconfitta referendaria conferisce alle forze politiche un potere di interdizione o di costruzione dei giochi che io ho utilizzato in questa legislatura più volte”. 
La metafora calcistica è ormai avviata, nonostante le rimostranze, ché tra l’arbitraggio e gli schemi di gioco, assieme alle battute rivolte agli juventini in cui ci siamo imbattuti nella salita, pare di stare in uno spogliatoio. Ma c’è poco da fare: il format è il calcio. “Ero il centroavanti fantasista? Sì. Era il mio ruolo preferito? Sì. Io volevo un calcio che giocasse all’attacco, un calcio spettacolo. Ma dopo la vittoria del ‘no’ al referendum, vanno più di moda i mediani che interrompono il gioco altrui, alcuni dei quali sono bravi anche a costruire le azioni di gioco degli altri”. E’ successo tre volte, in questa legislatura, che Renzi giocasse come mediano d’interdizione: impedire alcune azioni, costruirne altre. “Ho bloccato l’operazione ‘Di Maio primo ministro’ nell’aprile del 2018. Se avessi detto di sì allora, quella cosa si sarebbe chiusa. Rivendico di aver detto di no, l’ho detto a viso aperto: in quel momento l’accordo con i Cinque stelle con Di Maio premier e con Maurizio Martina vicepremier avrebbe segnato la trasformazione del Pd nel partito satellite del Movimento 5s e avrebbe inaugurato un bipopulismo 5s-Lega. Il Pd sarebbe morto, il paese avrebbe faticato, avremmo dovuto rimangiarci non soltanto le nostre battaglie, ma la nostra stessa identità in nome di un gioco matematico chiaro e di una visione politica teorizzata altrettanto chiaramente da Dario Franceschini e altri, che dicevano: abbiamo perso, diamo a loro la palla”.

Nella ricostruzione della prima vita di Renzi dopo la premiership, s’accavallano sliding doors, perché il suo mestiere diventa quello di cogliere il momento adatto per entrare o uscire, per tessere o disfare, per ostruire o costruire. E’ inutile dire che questo momento coincide con il picco di impopolarità, non soltanto perché chi aveva deciso di abbattere Renzi mal sopportava di ritrovarselo lì di fronte a dettare regole e inventare piani alternativi, ma anche perché il tatticismo il più delle volte sembra furbizia e nulla più. “Nella logica delle sliding doors, ho inciso su questa legislatura in termini di maggioranze parlamentari più di quella precedente. In quella precedente ho fatto il presidente del Consiglio, ho fatto le riforme, ma se guardiamo la politica con uno sguardo machiavellico, ho fatto di più da ultimo che allora. La seconda volta che mi è capitato di incidere sulle sorti politiche dell’Italia è stato quando, nell’agosto del 2019, si stava andando verso l’accordo tra Matteo Salvini e il Pd alle elezioni. Ho fatto una capriola, ho ingoiato una scatoletta di Maalox, ho fatto un’operazione che secondo me serviva al paese, perché se ci fosse stato un governo con Salvini premier e con Giorgia Meloni vicepremier, come si stava per fare, l’Italia sarebbe andata decisa in direzione antieuropeista. Ci saremmo trovati di fronte a una situazione di fragilità estrema, e di lì a poche settimane sarebbe scoppiato il Covid. Ma te lo immagini?”. 

 

Non ci infiliamo in questa porta scorrevole, per fortuna, anche perché non c’è azione che Renzi abbia amato di più dell’ultima ed è di quella che vuole parlare e che ha descritto in ogni suo dettaglio, anche incazzoso, in “Controcorrente”: l’arrivo di Mario Draghi premier. “Credo che questo sia stato il più importante capolavoro politico dei miei quindici anni di carriera. Sono ovviamente più fiero e orgoglioso delle leggi che ho firmato, ma dal punto di vista di una battaglia oltre la politica, una battaglia anche umana, valoriale, psicologica, Draghi a Palazzo Chigi è il mio capolavoro. Ho letto Shakespeare quest’estate (sul perché abbia fatto letture di questo genere torneremo dopo ma spoiler: nell’estate del 2021, la musica ascoltata da Renzi batte le sue letture) e davvero noi siamo stati una ‘band of brothers’”, gli “happy few” cui s’appella Enrico V prima della battaglia di Azincourt contro i francesi. “Abbiamo retto – dice Renzi – Con tutti i limiti che abbiamo, con tutti i difetti, quella era una sfida difficilissima, quasi impossibile. Quando abbiamo detto ‘no’ a Di Maio avevamo la piazza con noi. Quando siamo andati a fare il governo con i 5s non avevamo una piazza ma avevamo un nemico: Salvini. Dire no a Conte per mettere un premier diverso era considerato un atto di follia personale. Io non ci ho guadagnato nulla, ho perso i capelli e sono ingrassato di cinque chili, alcune persone hanno smesso di parlarmi. Se devo dire di cosa sono più fiero, non spreco la cartuccia per l’operazione Draghi, ma tecnicamente è un capolavoro. Ci voleva la follia e l’azzardo che soltanto noi avevamo, i pochi felici, la ‘band of brothers’, e non è un caso che mi sono ritrovato in Shakespeare: oltre a spettacolo e follia c’è forte l’elemento della tragedia”. 

Il prezzo è stato altissimo, l’impopolarità è salita a dismisura e anche se Renzi cita spesso, lo fa anche nel suo libro, Churchill quando dice che “niente nella vita è così esilarante come quando ti sparano addosso e non ti centrano”, la sofferenza ora affiora tutta insieme, parlando dei nemici, parlando degli ex amici soprattutto. “Per me la dimensione umana, nell’amicizia, viene prima della politica. Mi rendo conto che non per tutti è così. Certi silenzi che non mi aspettavo ora mi pesano, qualche scorrettezza umana mi ha ferito. Ma la lealtà per me è importante nei confronti delle proprie idee, per il resto ho sempre cercato di lasciare tutti liberi di decidere”. Nessun istinto vendicativo? “Ma no, quale vendetta. Chi mi ha detto: mi hai portato tu qui, ma io non condivido la scelta di Italia viva, si è preso un abbraccio. Per chi dice cattiverie il discorso è diverso: lì mi arrabbio. Ma a me è costato lasciare il Pd non tanto per la conta di chi viene o non viene, ma perché ho dovuto ammettere la mia sconfitta. Volevo trasformare il Pd in un modo molto diverso da quelli che ora guardano verso l’estrema sinistra. Non ce l’ho fatta e così me ne sono andato”. 

La separazione non è stata e non è placida, anche se Renzi vuole sembrare quasi pacificato con il fallimento e le sue conseguenze. Dice che oggi siamo in una fase in cui gli insulti sono “più rossi”, l’ex famiglia lo attacca di più degli estranei o dei rivali, ma maneggiare l’odio subìto gli fa molto dolore, e si vede. “La vicenda familiare l’ho sofferta tanto, mi ha fatto male male male”, dice Renzi in un soffio. Accenna a “dinamiche complicate” che si sono venute a creare, ma è chiaro che questa porta preferisce non aprirla. “Quello che mi fa male non è che chi è attorno a me non faccia un comunicato stampa per difendermi in occasione degli arresti o degli avvisi di garanzia: hanno paura dei giudici, li capisco, ci vuole un po’ di tempra per resistere a queste cose. Ma quando il capo di Magistratura democratica dice che bisogna stringere ‘un cordone sanitario’ attorno a Renzi, questo è uno scandalo. Nessuno ha il coraggio di dirlo. Ma non puoi scrivere tu, capo di Magistratura democratica, sulla rivista della corrente, che va stretto un ‘cordone sanitario’ attorno a un esponente politico. Non lo puoi fare”. E perché invece succede? Odio, mediocrità, risponde Renzi, “vivo con amarezza che alcuni rapporti umani si siano interrotti. L’altro giorno ho rivisto Graziano Delrio, sul quale ho scritto parole dure nel libro perché mi ha fatto male. Mi ha abbracciato, mi ha detto: ‘Io ti voglio bene’”. 

 

L’abbraccio conta, ma l’amarezza non passa, ancora oggi Renzi dice che non si è mai aspettato di essere difeso, che capisce la paura e anche la divergenza di opinioni, “ma non dovevamo accoltellarmi. Lasciami da solo in battaglia, ‘domani nella battaglia pensa a me’, combatto da solo, lascia che i mediocri mi attacchino, ma non mi attaccare anche tu. Di fronte alla vicenda di Magistratura democratica, il silenzio diventa inconcepibile. Non dico il silenzio pubblico: vuoi stare zitto? Ripeto, lo capisco, i giudici fanno paura. Ma tu lo sai che cosa vuol dire sentirsi dire che ti verrà stretto un cordone sanitario attorno? Cosa vuol dire a livello psicologico? Cosa vuol dire per i tuoi familiari che non dormono la notte convinti che stanno arrivando ad arrestarli? Cosa vuol dire dal punto di vista economico, quando ti strangolano? Perché se la prendono con le mie conferenze all’estero? (Non entriamo nella discussione sull’Arabia Saudita e Mohammed bin Salman perché si sentono i preparativi peer la foto di gruppo, e perché sui diritti delle donne saudite potremmo litigare per giorni e ricominciare subito dopo) Questa è una fonte di reddito che per quel che mi attende, cioè anni di processi davanti, è per me importante. Enrico Letta, Romano Prodi, Mario Monti, Giuliano Amato: quando hanno avuto delle collaborazioni internazionali non sono stati aggrediti. In tempi normali discuteremmo nel merito anche le differenze tra queste collaborazioni, ma qui siamo di fronte a un piano costruito e strutturato per strangolarmi”. Però il vittimismo non è populista? “Ma che vittimismo – dice Renzi – Io non faccio la vittima, io sono una vittima. Sono la vittima di un disegno che i lettori di Magistratura democratica hanno letto sulla loro rivista dal titolo: ‘Stringiamo un cordone sanitario attorno un esponente politico’. Il cordone sanitario, il giudice Nello Rossi, lo giri attorno a se stesso”. 

I magistrati fanno paura, “c’è un pezzo molto bello di Machiavelli che racconta questo terrore”, dice Renzi e questo è l’appiglio per passare oltre, per tornare ad assaporare i primi attimi di questa passeggiata, quando Renzi diceva “sono felice” e l’ombra dell’amarezza non era ancora scesa sul suo sguardo. Le ultime letture del senatore non si possono definire leggere: in realtà il suo piano originario era diverso, voleva immergersi in altri mondi, ma ha provato con un romanzo dell’estate ed è rimasto deluso; ha provato con un altro e l’ha lasciato a metà (non ci soffermiamo sugli autori e sui gusti letterari perché finisce come con le donne saudite), così s’è aperta un’altra sliding door che lo ha portato dall’Enrico V di Shakespeare, e poi: “Mi sono fatto una cultura con Giulio Guidorizzi e la letteratura greca, Ulisse, le isole – stupendo; ho letto don Divo Barsotti su Dostoevskij cristiano; ho letto Walter Siti e il suo ‘Contro l’impegno’”. I tormentoni estivi della musica italiana invece Renzi li conosce tutti, apre la classifica dei primi cinquanta di Spotify e si diverte: gli piace da morire la canzone di Fedez, Achille Lauro e Orietta Berti (nonostante gli scontri con Fedez) e naturalmente “se-vuoi-ti-compro-tutta-Malibu” (è “Malibu” di Sangiovanni). Ma alla Leopolda avrebbe voluto mettere i Maneskin e anche se ha cambiato idea canta: “Parla, la gente purtroppo parla, non sa di che cosa parla”, ed è intonato. Guarda su Netflix “Il metodo Kominsky” e ride. 

 

L’ultima sliding door si apre come la prima, “leggo, canto, studio molto, sono tranquillo, e qui sono felice”, dice Matteo Renzi. Cosa ti aspetti dal domani? “In politica, se vuoi una previsione, c’è nebbia. Quando c’è nebbia, si va piano, soltanto i cretini vanno a duecento all’ora. Con il prossimo presidente della Repubblica, capiremo che cosa si vorrà affrontare, dalla legge elettorale in poi”. Draghi al Quirinale? “E’ presto per parlarne”. E intanto Renzi che fa? “Vado piano, perché c’è nebbia. Non forzo i toni su niente, voglio dare una mano al governo. C’è nebbia”. Obiettivi per dopodomani? “Alle prossime elezioni staremo sopra il 5 per cento e saremo decisivi anche nella prossima legislatura”.

I proprietari del rifugio sono pronti per la foto, il drone è in posizione, spunta una bandiera dell’Europa, gli studenti strappano le ultime chiacchiere, chiedono video per il compleanno della mamma, fanno domande sul reddito di cittadinanza, si parla di amori che nascono sui monti – il romanticismo renziano questa volta sa di tramonto. L’edizione si è poi chiusa con i dieci tweet di Renzi e con la polemica del giorno, persino più misera della solita pira quotidiana, sull’orologio al polso di un ventenne (il Rolex che non era nemmeno un Rolex). Il prossimo anno la scuola sarà a Ventotene, cinquecento ragazzi e tre notti: ha vinto il cuore sul budget, pare.

Torna il pensiero della discesa sulle cabinovie: chi dice che salire è complicato, a scendere sono capaci tutti non sa niente delle vertigini. Arriva il caffè. Renzi lo prende amaro.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi