chi rischia più forte?

Le regionali viste con gli occhi dei leader

Cosa vince chi vince, cosa perde chi perde. Di Maio fa lo gnorri, Zinga il responsabile, il Cav. il sopravvissuto. Meloni sfida Salvini, Renzi si gioca tutto, o quasi

    Più una verifica sulla solidità dei partiti, e dei loro leader, che non sullo stato di salute del governo. Quello, si sa, non è eccellente: ma, per paradossale che appaia, proprio la debolezza dell'esecutivo di Giuseppe Conte porterà le forze di maggioranza a scaricare le tensioni al loro interno, piuttosto che a riversarle dentro il Consiglio dei ministri. Al netto, beninteso, di tracolli clamorosi. Il risultato che uscirà dalle urne, domani, darà però risposte utili per misurare i rapporti di forza dentro le coalizioni. Specie nel centrodestra, dove Giorgia Meloni potrebbe conquistare di fatto la guida del fronte sovranista a danno di Matteo Salvini. Ma anche nella maggioranza giallorossa, le regionali peseranno e misureranno le ambizioni di tutti. Quelle di Nicola Zingaretti, che nel giro di poche ore si gioca buona parte del suo presente e forse del suo futuro. Quelle di Luigi Di Maio, che arriva col fiato corto e col disorientamento di un M5s sfibrato e rattrappito sull'unica battaglia che gli è rimasta, e cioè il taglio dei parlamentari sotto forma di estrema riproposizione della crociata contro la Casta. E quelle di Matteo Renzi, infine, che corre sul filo della sua spregiudicata centralità, gioca col destino degli altri e si gioca un pezzo del proprio. 

     

     

    Matteo Salvini

    Non vince anche se vince, ma se perde può perdere per sempre la guida del centrodestra. Non sarà Luca Zaia a porgere il veleno a Matteo Salvini, ma sarà Giorgia Meloni a rimpicciolirlo, a chiederne il demansionamento: non più capo ma artefice del capitombolo. Se la Lega di Susanna Ceccardi afferra la Toscana, nella Lega si sorriderà ma come si sorride dopo i troppi dispiaceri. La vittoria di Luca Zaia è infatti la vittoria di Zaia e se dovesse vincere Raffale Fitto sarebbe la vittoria di FdI. Se non citofona più come in Emilia (“scusi, lei spaccia?”) è perché questa volta nessuno alzerebbe il citofono. In Europa è ancora in quarantena e in Italia non è più lui che insegue i migranti ma sono i magistrati che inseguono i commercialisti della Lega. Sorseggia tisane di moderazione ma solo perché il corpo è ancora indebolito. Non teme né Giorgetti e neppure Zaia perché sa che difettano di coraggio. La Toscana potrebbe dunque essere la sua cura termale, una terapia oppure, se perde, la leadership ricoverata su consiglio della Meloni. Ogni sera, prima di addormentarsi guarda la foto del Papeete e si ripete: “Eppure fui felice”.

    (di Carmelo Caruso)

     

    Nicola Zingaretti

    Restare in equilibrio sul filo sospeso nell'aria, con almeno la Toscana in tasca, questo l'obiettivo minimo di Nicola Zingaretti, per forza funambolo alla vigilia dell'election day. Fosse in America, gli si direbbe: “Segretario, hai davanti uno scenario potenzialmente lose-lose”, cioè una situazione che può evolvere in trappola mortale o in guadagno talmente irrisorio da essere invisibile. Se vincono i “sì” al referendum, su cui Zingaretti ha puntato con distinguo (della serie: lo facciamo non per foga anticasta, ma per le riforme), ci sarebbe comunque chi (M5s) punterebbe a intestarsi la vittoria, con conseguente indebolimento interno del segretario pd, che sul quesito referendario ha il partito spaccato (con “no” illustri, da Romano Prodi a Walter Veltroni). Se vincono i “no” peggio mi sento (rischio pure nel governo). Per non dire del voto regionale: nelle Marche e in Liguria è indirettamente messa sotto stress l'alleanza governativa Pd-M5s, in Puglia e soprattutto in Toscana un'eventuale sconfitta – ferma restando la salvezza del tandem di governo in prossimità della manovra economica – avvicinerebbe il giorno del giudizio interno (Andrea Orlando? Stefano Bonaccini?). E a Zingaretti non resta allora che nobilitare la posta, appellandosi al voto contro le destre populiste, in nome della tenuta del paese (e sua).

    (di Marianna Rizzini)

     

     

    Silvio Berlusconi

    Sorridente e ottimista tra le rughe di cui è diventato orgoglioso, fermo nella sua dignità di sopravvissuto (persino al covid), Silvio Berlusconi sembra combattere scandalizzato ma non rassegnato una guerra impossibile alle pernacchie e alle fetecchie, agli spasmi violenti e alle inerzie di sasso, agli sgrammaticati telebanditori e ai piazzisti di pentole e tappeti. Ha passato la vita a lamentarsi dei partitini e dei piccoli alleati riottosi, di Casini, Bossi e Fini, e adesso si riadatta con elasticità di ragazzino a giocare lui il ruolo di partner minore. Non ha altre ambizioni, per queste regionali. E infatti il Cavaliere eterno ha puntato sulla bonomia di un galantuomo, Stefano Caldoro, il suo candidato alla presidenza della Campania. Ma con scarse speranze di successo. E allora dal risultato di domani notte si aspetta poco, quasi niente. Voleva il bipolarismo maggioritario, adesso invece cerca con naturalezza d’istrione uno spazietto politico, una dimensione da sistema proporzionale, tra le corazzate del populismo strapotente. Gli basta resistere. Esserci. E poi far pesare i suoi voti.

    (di Salvatore Merlo)

     

     

    Luigi Di Maio

    Tenterà in ogni modo di occultarlo, quel risultato. Come se fosse un accidente secondario, una faccenda che lo lambisce senza toccarlo davvero. Regionali? Regionali chi? Quando? Luigi Di Maio farà finta che non si saranno neppure svolte, queste elezioni. Neppure nella sua Campania. Ma puntando sulla distrazione generale, e sul caos che probabilmente tribolerà il Pd in caso di tracollo in Puglia e Toscana, il ministro degli Esteri rivendicherà la sola vittoria (che pare scontata) al referendum costituzionale. Incassando, lui, gli onori del successo del Sì, e lasciando che l'umiliazione della disfatta alle regionali e alle amministrative ricada tutta sul malcapitato Vito Crimi, reggente che s'è del resto stufato di reggere. Sull'onda supposta del trionfo referendario, Di Maio invocherà la convocazione immediata degli Stati generali, a cui arriverà come regista di un'operazione mirata a ricostituire un direttorio fatto coi maggiorenti di sempre, dalla Taverna a Bonafede passando per Patuanelli. E così, forte del rinnovato consenso interno che dovrebbe derivargli, vorrebbe tanto provare a ritrovare una centralità politica. Operazione, questa, che nei suoi desideri più veri, e neppure tanto reconditi, passerebbe per la defenestrazione di Giuseppe Conte, e un bel riassetto degli equilibri di governo in cui sarebbe lui a farsi garante della tenuta del M5s, e a ottenere così la tanto ambita promozione a Palazzo Chigi. Macchinazioni che il capo della Farnesina non tiene troppo nascoste, se è vero che è arrivato perfino a far recapitare dispacci ufficiali a Matteo Renzi: “Vorrebbe che la facessi io, la crisi, cosicché poi lui ne gioverebbe”, ha confidato l'ex premier ai suoi fedelissimi, nei giorni scorsi. Intrigo forse troppo ardito, quello di Di Maio. Anche perché si scontrerebbe con gli umori di tanti dei suoi fedelissimi (da Buffagni a in giù) che un rimpasto lo vorrebbero pure, ma senza mettere a rischio la guida dell'avvocato del popolo. E allora, dovrà pensare il ministro degli Esteri, ma chi me lo fa fare? Meglio puntare a resistere, e durare, fino al 2023. E poi chissà.

    (di Valerio Valentini)

     

     

    Giorgia Meloni

    Un altro bel morso a Salvini. Poi, visto che c'è, superare il M5S. Il tutto con una didascalia scritta in maiuscolo: dimostrare che Fratelli d'Italia non è più un circolo politico dalle fascinazioni un po' esoteriche con sede a Colle Oppio (Roma) con filiali nel Lazio e in Abruzzo. Ma che è una cosa seria, molto seria: “Ci siamo capiti?!!”. La partita di Giorgia Meloni è quella più semplice, nel centrodestra. Male che le vada prenderà un governatore (Francesco Acquaroli nelle Marche), se invece arriverà anche la Puglia con Raffaele Fitto allora sì che sarà festa grande e nazionale. Tricolori al vento. In più, qua e là nei territori, i meloniani puntano a contare e a contarsi. Drenando consensi a Forza Italia e in versione anti-Lega. Sfida non proibitiva, fatto salvo il Veneto. Ma che fine farà Giorgia se lunedì le sorriderà il sol dell'avvenire (magari con la Toscana rimasta al Pd)? Niente: alzerà solo il fuoco della casseruola dentro a cui punta a cuocere lento l'amico Matteo. E poi: al voto, al voto. 

    (di Simone Canettieri)

     

     

    Matteo Renzi

    Rischia la faccia, Matteo Renzi, a queste elezioni regionali. L’ex presidente del Consiglio ha già rivisto le aspettative, anche nella sua Toscana dove fino a pochi mesi fa puntava al 10 per cento. Tutto cambiato: Italia viva si accontenterà eventualmente di essere l’ago della bilancia in caso di vittoria di Eugenio Giani, di essere stata insomma decisiva per la vittoria del centrosinistra, e di condizionare i lavori del consiglio regionale. Così come in Puglia si potrebbe accontentare, casomai, di far perdere Michele Emiliano contro Raffaele Fitto, con possibili ripercussioni all’interno della coalizione. Certo è che se in Toscana dovesse scendere di parecchio sotto il 10 per cento, sarebbe una sconfitta politica di non poco conto, che imporrebbe qualche domanda a Renzi sulla tempistica della ormai digerita scissione e sul futuro di Italia viva. C’è insomma il rischio di una battaglia di testimonianza per Renzi, che già è insidiato – all’interno dell’affollato condominio liberal-democratico – dall’azionismo di Carlo Calenda.

    (di David Allegranti)