Ecco i barbari romanizzati
La lotta contro i populisti è giusta e sacra. Ma è ora di porsi una domanda: c’è un modo diverso rispetto al metodo Franceschini per ancorare l’Italia all’occidente? Parliamone
Per dirla con Giuliano Ferrara, non ce l’ho con i grillini per quello che fanno. Come l’omino di niente di Gianni Rodari, hanno il naso di niente, la bocca di niente, sono vestiti di niente, calzano scarpe di niente e si sono messi in viaggio su una strada di niente che non va in nessun posto. Ce l’ho con i grillini per quel che sono, per quel che rappresentano. Ce l’ho con loro perché rappresentano lo “spessore reazionario” della società italiana richiamato da Giorgio Amendola. Perché, come i Lazzari, incarnano il rifiuto delle regole (del diritto, del mercato, dell’Europa) che la maggioranza degli italiani vuole infrangere perché si sente perseguitata e dentro quelle regole si sente soffocare. Perché rappresentano una robusta tradizione culturale di rigetto del reale in nome dell’illusione (che il poeta peruviano Augusto Lunel ha definito mirabilmente: “Siamo contrari a tutte le leggi, a cominciare dalla legge di gravità”). Perché rappresentano una pagina obsoleta dell’album di famiglia della sinistra italiana, ferma ad analisi insostenibili, che tuttavia un tempo facevano parte di un patrimonio comune a moltissime persone. Perché rappresentano il ribellismo anarchico e la storica arretratezza socio-culturale del paese. Perché il loro ribellismo anarcoide non è che un lato della medaglia, il cui rovescio è l’immobilismo e l’arretratezza legata alla struttura clientelare del potere. Perché, in loro, ribellismo anarchico e conservatorismo si fondono come nel Fascismo, che infatti in un primo tempo è protesta socialista e diventa poi autoritarismo e conservazione del potere. Perché sono impregnati di umori anti-istituzionali, irrazionali e nichilisti: ai loro occhi “la politica” è il Male in sé e ne propongono la distruzione con un atteggiamento infantile e irresponsabile. Ce l’ho con loro per il loro antieuropeismo malato e il loro antiamericanismo terzomondista. E poi, come direbbe Corto Maltese, “ho una antipatia innata per i censori, i probiviri. Ma, soprattutto, sono i redentori coloro che mi disturbano di più”.
Resto, inoltre, dell’opinione che il governo rossogiallo finirà per buttare dalla finestra un mare di soldi per provvedimenti sbagliati e inutili e per produrre una nuova delusione vittimista e piagnona. Del resto, sono ancora convinto che al governo ci siano due peronismi. Il populismo di Conte (e dell’attuale Pd) è il peronismo, cinico ma pragmatico, di Perón (detesta il capitalismo e la globalizzazione, ma sa perfettamente che l’autarchia è controproducente e che con essi tocca fare i conti). Il populismo di Di Maio (ma anche quello di Salvini) è il peronismo millenaristico, manicheo, redentore, di Eva.
Il governo rossogiallo finirà per buttare dalla finestra un mare di soldi. Ma oltre la critica c’è altro: con questi numeri, cosa si può fare?
Dunque, il mio modo di vedere le cose è lontanissimo dall’approccio di chi, come Dario Franceschini, punta a romanizzare i barbari. Della solita scorciatoia, quella dell’elusione retorico-idealistica della realtà, del “marxismo evangelico” che si strugge nella giustizia di Goffredo Bettini, non vale neppure la pena parlare. Ma con l’approccio di Franceschini bisogna fare i conti, perché l’idea di costringere (o di aiutare) i nuovi vincitori a trovare un compromesso tra il desiderio di palingenesi e la realtà delle cose, ha una lunga storia (e probabilmente un grande avvenire) dietro le spalle. Anche perché, sia pure con tutta una serie di implicazioni, sembra funzionare.
I risultati del governo rossogiallo non sono certo una gran cosa. Ma come ha spiegato Giovanni Orsina (che dopo le elezioni, proprio dalle colonne del Foglio, invitò l’establishment italiano a non condannare senza appello Lega e M5s, ma anzi a sforzarsi di incivilirli, scommettendo sulla loro progressiva normalizzazione), quella della romanizzazione dei barbari, era sin dall’inizio una logica di riduzione del danno; e dobbiamo riconoscere che, se non altro, le catastrofi temute non si sono realizzate. Certo, si dirà che, nel frattempo, si sono barbarizzati i romani, sui social e non solo, ma non c’è dubbio che i grillini si sono rivelati delle tigri di carta, dei rivoluzionari da strapazzo. E se analizziamo l’azione politica del governo, bisogna dare atto che i barbari di compromessi con Roma ne hanno fatti parecchi: l’uscita dall’euro non è più all’ordine del giorno, l’Europa non è più matrigna e lo spread è sotto controllo. Non mancano certo le tensioni (dentro ai Cinque stelle e tra i partiti della maggioranza) e neppure assurdità e corbellerie, ma, dài e dài, useremo anche il Mes, faremo i vaccini, acquisteremo e assembleremo gli F-35 e si farà (volesse il cielo) persino il Ponte sullo Stretto. Inoltre, il M5s ha votato a favore di Ursula von der Leyen come nuovo presidente della Commissione europea, allineandosi con la maggioranza europeista a Bruxelles e la Nato non è più un nemico. Insomma, come dicono gli inglesi, “his bark is worse than his bite” (a parte, certo, l’assistenzialismo, lo spreco di denaro pubblico e la manomissione dei principi del giusto processo di cui si è reso responsabile il Guardasigilli, che però vengono da lontano).
Il punto è quello: l’idea di costringere i nuovi vincitori a trovare un compromesso tra il desiderio di palingenesi e la realtà delle cose
Ci siamo ridotti, dunque, ad accontentarci che i (cattivi) governanti non producano catastrofi e a prendere quel che viene come un male tutto sommato sopportabile? Direi di sì. Ma non è la prima volta che accade nella storia d’Italia. La scommessa di romanizzare i grillini, affidandoli al Pd e facendo affidamento sul loro nuovo leader moderato, Giuseppe Conte (“il punto di riferimento fortissimo di tutti i riformisti” stando a Zingaretti), spingendo, nel frattempo, Salvini oltre il limes romano, non è una novità. La strategia di Franceschini (e, presumo, di Mattarella) ha una lunga storia.
Nell’Italia dei primi anni Sessanta si è profilato un processo molto simile, che ricordava, del resto, quanto era già avvenuto in Italia tra fine Ottocento e inizi del Novecento. Dopo la caduta del governo Tambroni e delle sue ambizioni autoritarie che richiamavano quelle di Pelloux, furono Fanfani e Moro a vestire i panni di Zanardelli e Giolitti. Fu Aldo Moro, allora segretario del partito, ad indicare in un discorso storico, nel gennaio 1962, gli obiettivi della maggioranza della Dc: escludere la destra monarchico-fascista, allargare l’area del consenso stringendo un’alleanza con i socialisti (che dati i rapporti di forza si sarebbero trovati in posizione subalterna) e isolare l’opposizione comunista. E poi, di nuovo, negli anni Settanta, di fronte all’esaurimento del centro-sinistra e al reale pericolo di scardinamento dello stato, si delineò una azione convergente tra il Pci e una parte della Dc guidata di nuovo da Moro, ormai persuasosi della convenienza di un accordo con i comunisti, ritenuti indispensabili per il consolidamento delle istituzioni. Fu Moro a tessere la tela (da ciò l’appellativo che gli fu conferito, e che era già stato dato a Cavour, di “grande tessitore”) di una operazione che partiva dalla convinzione che andassero maturando le condizioni per ripetere, nei confronti del maggiore partito della sinistra, l’operazione compiuta nei primi anni Sessanta con il Psi. Le cose, si sa, sono poi andate come sono andate. Resta il fatto che la scommessa sulla progressiva normalizzazione dei grillini, con l’obiettivo di mantenere (dopo la grottesca estate del Papeete e dei pieni poteri) la collocazione internazionale dell’Italia attorno alle scelte fondamentali di politica estera compiute all’indomani della Seconda guerra mondiale (la scelta “europeista” e quella “atlantica”, che corrispondono agli intessessi generali del paese), si inserisce nel solco dei tentativi precedenti e, bisogna ammettere, sta funzionando.
Naturalmente, niente è gratis e tutto si paga, prima o poi. Anche allora, la progressiva integrazione, prima del Psi e poi del Pci, nell’ambito degli equilibri di governo in funzione di un rafforzamento reale della democrazia, comportò dei prezzi da pagare. Anche allora si trattava di coinvolgere il Pci nell’area di governo come possibile fattore di “stabilità sociale e politica” e di “risposta al disordine sociale”, per usare le parole di Guido Carli; e anche allora il Pci, che pure difese fino all’ultimo le istituzioni della democrazia parlamentare che aveva contribuito a creare, era una sorta di ircocervo: non volle mai compiutamente diventare un partito socialdemocratico e coltivò fino all’ultimo un progetto di trasformazione socialista per via elettorale.
Quella della romanizzazione dei barbari era sin dall’inizio una logica di riduzione del danno. E’ dura. Ma un po’ sta funzionando
Fatto sta che partire dai primi anni Settanta la politica del deficit spending diventa prassi nell’azione di politica economica a sostegno dell’economia e strumento di raggiungimento di consenso a causa dei forti conflitti sociali. Così, tra il 1974 e il 1992 la spesa pubblica crebbe del 166 per cento, sette volte più del pil (+23 per cento). Le entrate dello stato non crebbero in misura adeguata pur raggiungendo livelli elevatissimi. Si creò un disavanzo crescente e il debito pubblico, che nel 1963 era pari al 25 per cento del pil, salì al 60 per cento nel 1980 e superò il 120 per cento nel 1993. La spesa fu orientata all’espansione del welfare state e molte delle decisioni di spesa hanno risposto a esigenze equitative che in molti altri paesi occidentali erano già state soddisfatte (dal prolungamento della scuola dell’obbligo, all’istituzione delle scuole materne statali, all’estensione dell’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, all’istituzione delle pensioni per gli anziani poveri e per gli invalidi civili, ecc.). Tuttavia, la spesa pubblica venne utilizzata anche per attenuare le situazioni di conflittualità e le conseguenze sociali delle crisi economiche (fu aumentato l’importo delle pensioni di anzianità, svincolandole dall’entità dei contributi versati, specie nei confronti dei dipendenti pubblici; il settore del pubblico impiego fu utilizzato come strumento per ridurre le tensioni sociali con massicce assunzioni di personale poco giustificate da esigenze oggettive, e così via). Non per caso, il provvedimento che consentiva le baby pensioni nell'impiego pubblico (14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli), fu votato, nel 1973, sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Ovviamente, il contesto (sia quello interno che quello internazionale) allora era molto diverso, diverso era il sistema dei partiti, ma c’è un filo rosso che lega la strategia di Franceschini a quella della Dc di Moro. Si tratta, sia chiaro, di un modo di vedere le cose cinico e pessimista. Secondo questa visione, gli italiani sono dei bambini immaturi, bisognosi di rassicurazione e di guida. Il guaio è che se si trattano gli italiani come eterni bambini, si comporteranno da bambini – cioè come persone molto autocentrate, sempre pronte a chiedere, a “prendere”, a criticare in maniera distruttiva – che, oltretutto, non si considerano responsabili delle conseguenze delle loro azioni e delle loro scelte. E’ sempre colpa di qualcun altro: della perfida Albione, dei francesi, della Germania, del destino cinico e baro, delle cavallette. Per un po’ può anche funzionare. A patto che si faccia finta di credere davvero che a Piazza Venezia non c’era nessuno. Ma le conseguenze, in genere, non tardano a farsi sentire, ben oltre lo sperpero di denaro pubblico. Ad esempio, se così stanno le cose, dobbiamo toglierci dalla testa che si possa affermare una moderna democrazia dell’alternanza e che si possa introdurre una regola maggioritaria che consenta ai cittadini, e non ai partiti, di scegliere la coalizione di governo tra proposte alternative. E’ necessario tornare a un sistema elettorale proporzionale; è necessario che le maggioranze si formino in Parlamento, più volte nel corso della legislatura, ed è indispensabile un certo grado di libertà di movimento politico e, dunque, un certo grado di trasformismo, di transfughismo e di manovra parlamentare. Naturalmente, non mancano le contraddizioni: tornare alla Prima Repubblica senza i partiti (e la classe politica) di allora è puro nonsense. Senza contare che, con istituzioni deboli e partiti liquefatti, solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione (non per caso, è dal 1993 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e di regione). Per questo, un punto fondamentale della strategia di Franceschini è il controllo della più importante casella della scacchiera: la presidenza della Repubblica. Il Quirinale è la preda più ambita, poiché da quella posizione, come nel gioco degli scacchi, è possibile controllare il ritmo e la direzione della partita. Oltretutto, da Pertini in poi è l’unica istituzione davvero popolare, resta la più longeva e gode di poteri (molto dilatati negli ultimi decenni) in grado di sovrastare ogni altro potere. Insomma, come nella costituzione della V Repubblica francese, il presidente emerge come “giudice supremo dell’interesse nazionale”.
Il tutto, senza dubbio, ci espone a dei rischi. Non sta scritto da nessuna parte, infatti, che il presidente della Repubblica debba essere necessariamente espressione di quel che rimane del vecchio “arco costituzionale”. Va detto, però, che in questo modo, nonostante l’opinione pubblica sia ormai un po’ rincretinita, l’Italia rimane saldamente ancorata all’occidente e a quell’ordine mondiale che ci ha consentito lo straordinario sviluppo del Dopoguerra. In fondo, le cose non stavano in modo molto diverso negli anni Settanta, quando i marxisti immaginari che popolavano le piazze italiane volevano fare la rivoluzione, ma il paese, grazie soprattutto alla Dc, rimaneva saldamente sotto l’ombrello Nato (di cui anche Berlinguer arrivò a riconoscere la funzione positiva). Sebbene anche allora la demagogia antioccidentale e antiamericana trovasse in Italia terreno fertile, se bisognava installare i Cruise, poche balle, si piazzavano i missili nucleari a Comiso. Insomma, quando bisognava scegliere da che parte stare, nonostante i mal di pancia, l’Italia si è sempre dimostrata un pilastro dell’Alleanza atlantica.
E’ così anche oggi? Forse sì. Non per caso, si delinea un nuovo fattore K, una nuova conventio ad excludendum contro il partito di Salvini. Per colpa sua, ovviamente. Come allora, non si tratta di una invenzione discriminatoria. Si tratta di un impedimento reale: per i populisti italiani la Russia è un modello politico (e la Cina è un modello economico). Ma, per dirla proprio terra terra, per cambiare le alleanze che derivano dalla Seconda guerra mondiale, bisogna fare una guerra, chiaro no? Insomma, sebbene in questo modo, gli italiani siano confinati in una sorta di giardino d’infanzia (o forse, sarebbe meglio dire in un ospizio), al riparo dalle responsabilità (tanto poi in Libia, solo per fare un esempio, combattono i turchi), l’approccio di Franceschini sembra funzionare. Grazie a Renzi e al Pd (va detto), restiamo agganciati (con Gentiloni, Amendola, ecc.) all’Europa, non siamo ancora diventati vassalli della Cina o della Russia e abbiamo allontanato l’incubo venezuelano di Di Battista. Naturalmente, c’è un ma (c’è sempre un ma). Finché c’è da salvare il salvabile, va bene tutto, ma ora che, dopo la pandemia ed il crollo della produzione industriale, servirebbe uno sforzo collettivo e “di sistema” per affrontare una situazione molto difficile come quella attuale, in un momento in cui il sistema internazionale costruito dopo la Seconda guerra mondiale è quasi irriconoscibile; in un momento in cui la quarta rivoluzione industriale è già realtà e l’Italia deve restare agganciata al vagone di testa con le unghie e con i denti; in un momento in cui servirebbe una politica all’altezza della rivoluzione (come sempre) più culturale che economica di cui il paese avrebbe urgente bisogno, proprio per lasciarsi alle spalle quella che Claudio Cerasa ha definito “la codificazione dell’immobilismo come unica forma di legalità consentita”, il rischio di non farcela, di restare ai margini o di finire fuori strada è altissimo. Anche perché, come nel mondo della Regina Rossa del celebre racconto di Lewis Carroll, bisogna correre il più velocemente possibile per riuscire a rimanere nello stesso punto. Tanto per capirci, l’estate scorsa l’India (sì, l’India) ha inviato un modulo spaziale, il Chandrayaan-2, sulla Luna e, come abbiamo visto, da parte americana lo spazio diventa sempre più una questione privata: Elon Musk primo su tutti, ma anche Branson, Bezos e altri.
Si sono barbarizzati anche alcuni romani, ma non c’è dubbio che i grillini si sono rivelati delle tigri di carta, dei rivoluzionari da strapazzo
Resta il fatto, tuttavia, che chi non si vuole rassegnare al governo rossogiallo, deve fare i conti con un metodo, quello di Franceschini, che ha ispirato la storia della Dc. Certo, molti di noi vorrebbero più Europa (e un’Italia come si deve, in modo da incidere su una realtà che si sta lasciando i paesi europei alle spalle), ma forse bisogna prendere atto che l’unica alleanza “europeista” oggi possibile è quella al governo. E se è così, perché stupirsi che Franceschini sostenga da tempo che “l’intesa di governo tra il Pd e il M5s debba sfociare in una alleanza permanente”? Ma proprio perché molti di noi vorrebbero di più, quel che resta dei liberal italiani (anche dentro al Pd), un paio di domande se le deve porre. Si può fare, certo, testimonianza (poi si vedrà). Renzi, Calenda, +Europa (e magari Berlusconi) dovrebbero, certo, darsi una mossa e provare a tenersi per mano (e la candidatura di Ivan Scalfarotto a presidente della Puglia è senza dubbio una buona notizia). Ma la vera domanda che dovremmo porci (“hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère”), suona più o meno così: “C’è un modo diverso per ancorare l’Italia all’occidente, mantenere la rotta atlantica e rafforzarne il peso nella Ue?”. Insomma, c’è un’alternativa all’“ircocervo” di Franceschini?
L'editoriale del direttore