foto LaPresse

Abbiamo speso un capitale per importare mascherine. Ci compravamo la fabbrica

Giulia Pompili

I paesi che hanno gestito meglio il contagio sono anche quelli che hanno avuto una strategia chiara sull’approvvigionamento. I problemi del “modello italiano”

Roma. Durante una pandemia i dispositivi di protezione personale sono indispensabili. Abbiamo capito l’importanza delle mascherine chirurgiche, dei guanti, e delle mascherine filtranti per chi deve operare su pazienti infetti. Ma quando arriva una pandemia il contagio è di tutti, e questo ha messo in difficoltà un sistema globalizzato e basato sul just in time, l’approvvigionamento se e quando serve. In Italia le mascherine sono raccomandate, e non obbligatorie: non c’è nessuna sanzione per chi esce senza. Questo nonostante perfino l’Organizzazione mondiale della sanità abbia ufficializzato una specie di “effetto gregge da mascherina”: se tutti la indossano, si riducono i contagi. Ma sarebbe imbarazzante, per un governo, anche regionale, obbligare i cittadini a indossare un dispositivo che il governo stesso non è riuscito a distribuire. In Italia le mascherine scarseggiano, perfino tra gli operatori professionali, eppure ne abbiamo comprate tantissime, soprattutto dalla Cina. I pochi tentativi autarchici della Lombardia non sono finiti benissimo (le mascherine-pannolino distribuite negli ospedali non avevano neanche i buchi per le orecchie, che gli operatori sanitari usano per lo stetoscopio, altro che estetica).

 

I paesi che hanno gestito meglio il contagio sono anche quelli che hanno avuto una strategia chiara sull’approvvigionamento delle mascherine: sia in Corea del sud sia a Taiwan i governi hanno preso il controllo della produzione dei dispositivi, dato incentivi per quasi triplicarne l’attività, la ministra del Digitale di Taipei, Audrey Tang, ha detto ieri a Repubblica che Taiwan è passata da una produzione giornaliera di due milioni di mascherine a 17 milioni. La strategia di Emmanuel Macron in Francia è stata molto simile: le quattro industrie del paese producevano, prima della pandemia, 3,3 milioni di mascherine a settimana. Sono passati ora a 10 milioni a settimana e arriveranno a 15, grazie anche all’aiuto di aziende (per lo più del settore automobilistico) riconvertite. La produzione domestica costa meno, perché si abbattono i costi di trasporto, ma soprattutto ha il grande vantaggio di essere controllatissima sin dal principio, e quindi non ha bisogno di lunghi stop in dogana, rischiando eventuali blocchi, sia in uscita sia in entrata. L’Italia con le mascherine ha avuto una strategia diversa.

 

Dopo la telefonata tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il suo omologo cinese Wang Yi, abbiamo puntato tutto sull’importazione. A un certo punto, durante il picco dei contagi in Italia, tra donazioni, acquisti e requisizioni, perfino il governo aveva perso il conto dell’approvvigionamento da parte della Protezione civile. Anche oggi la situazione è piuttosto confusa, ma a fine aprile il Dipartimento della presidenza del Consiglio che si occupa delle emergenze ha pubblicato online l’elenco dei contratti stipulati con i fornitori di mascherine e materiale necessario al contrasto dell’epidemia. L’elenco ci dice che fino al 13 marzo la Protezione civile si rivolge alle aziende italiane: sono registrati contratti con la Dpi Sekur, la 3M, la Mediberg, la Bls, la Draeger, la Uvex safety. Tutte aziende che producono in Italia. Sono commesse però da poche decine di migliaia di euro, mentre il grosso (più di quattro milioni) viene commissionato a società di import-export, quelle cioè che vanno a cercare mascherine e ventilatori all’estero, quasi sempre in Cina, con poca dimestichezza con presidi medici.

 

Intorno a metà marzo, con la telefonata Di Maio-Pechino, tutto cambia. La Protezione civile inizia a rifornirsi sia attraverso importatori che lavorano quasi esclusivamente con la Cina (è il caso della Only dell’ex presidente della Camera Irene Pivetti) sia direttamente dai produttori cinesi. La Byd Auto, per esempio, è un produttore di automobili cinese di Shenzhen, con una pregressa presenza sul mercato italiano, che si è riconvertito nella produzione di mascherine. Nel mese di marzo Byd ha firmato contratti con la Protezione civile italiana per 134 milioni di euro. La China Meheco di Pechino per 47 milioni di euro. Terza in classifica è la Only Italy della Pivetti, che ottiene un contratto da 25 milioni di euro per importare mascherine dalla Cina. Ora la società è sotto inchiesta perché alcune di queste mascherine sarebbero non a norma. Il 15 marzo viene firmato un contratto da 12 milioni e mezzo di euro per la fornitura di 5 mila mascherine filtranti con la Tus Data Assett, la prima società di tecnologia blockchain di proprietà del governo di Pechino. Come riportato dalla Stampa, quelle mascherine, già pagate, sono state sequestrate alla dogana cinese.

 

Con i respiratori la situazione è altrettanto confusa: il 13 marzo viene firmato l’acquisto di 140 respiratori per due milioni e mezzo di euro dalla Silk Road Global Information Limited. L’interlocutrice è Wu Bixiu, segretaria dell’Alleanza metropolitana della Via della Seta, e nello scambio di email allegato al contratto dice di aver ricevuto da Massimo D’Alema l’informazione che il governo italiano avrebbe comprato “tutti i respiratori disponibili”. Ma la Silk Road Global non produce apparecchi, e quindi fa tecnicamente da intermediario. Altri cento ventilatori vengono commissionati il giorno dopo, il 14 marzo, alla Nanjing Chenwei medical per ottocentomila euro. Ma una settimana prima la Protezione civile aveva firmato un contratto da 22 milioni di euro per 2.320 respiratori dall’italiana Siare (che sta continuando a lavorare e consegnare senza sosta). A oggi, con tutte le donazioni arrivate, la Protezione civile ha distribuito 300 respiratori in tutta Italia.

 

E’ chiaro che il modello d’importazione non funziona: non ci sono controlli sufficienti, in un mercato, quello cinese, che è una giungla anche in tempi non d’emergenza. Alcune risorse, come ha fatto la Francia o la Corea, avrebbero potuto essere utilizzate per centralizzare la produzione e la distribuzione dei presìdi in Italia. Ma la politica frettolosa fa i figli ciechi. In compenso, la scorsa settimana a Pechino si gioiva per un dato: nonostante la crisi economica, ad aprile l’export cinese è cresciuto del 3,5 per cento. La diplomazia delle mascherine funziona davvero.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.