Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Renzi e la spallata a Conte

Valerio Valentini

Cosa cambia nel governo dopo la mossa del leader di Italia viva e perché la legislatura ancora non balla

Roma. Nell’Aula semivuota del Senato, martedì pomeriggio, Paolo Romani – che briga per costruire i responsabili senza scontentare nessuno – ha provato a risolverla sbrigativamente: “Ma possibile che Franceschini non capisce che fare fuori Conte può convenire anche a loro?”. Lo ha chiesto a Matteo Renzi, il quale, con un lampo negli occhi, s’è stretto nelle spalle: “Cosa vuoi che ti dica? Il problema è che a Franceschini piace farsele spiegare, le cose”. Allusione velenosa a colui che, forse proprio per la sua enigmaticità da sfinge, continua ad apparire come il dominus della situazione. Perché il capo delegazione del Pd, col suo ruolo di democristiano conciliatore che un po’ abbozza e un po’ sopisce ma sotto sotto trama comme il faut, lui che ha un filo diretto col Quirinale e una mano sempre poggiata sulla spalla di Conte, è il pistolero con la mano più salda di tutti che determina il perdurare di questo stallo alla messicana. All’idea di defenestrare il premier, che tanto garberebbe al senatore di Scandicci, Franceschini si oppone: “Chi ci garantisce che poi il M5s reggerebbe?”. Ma al tempo stesso dissuade il fu “avvocato del popolo”, e i suoi istintivi collaboratori, dal tentare le prove di forze: “Non possiamo affidarci ai responsabili”.

 

E così la tentazione di Conte, quella di andare a caccia di un manipolo di senatori con cui rimpiazzare l’alleato recalcitrante, per ora si risolve in un rito quotidiano di colloqui che ruotano sempre intorno alle solite speranze, ai soliti dubbi. Gianfranco Rotondi, che di questa operazione di soccorso democristiano a Conte è uno dei registi, garantisce che “all’occorrenza di responsabili ce ne sono a iosa, ma si espongono solo quando sono sicurissimi che è necessario farlo”. E però, quando gli si chiede un consiglio sull’opportunità della prova di forza, predica cautela: “La conta in Senato la vincerebbe, il premier. Ma non so se poi tutto l’impianto reggerebbe”. Ed è proprio contando sulla fragilità di una nuova maggioranza senza Italia viva e con dentro la pattuglia di Romani e compagni, che Renzi alla fine non esclude l’ipotesi di andare all’opposizione: “Se propone riforme condivise ammiccando anche al centrodestra, se prospetta il presidenzialismo o un impianto con il ‘sindaco d’Italia’ – dice, nel Pd, chi lo conosce bene – lo fa magari con l’obiettivo di farsi cacciare dalla maggioranza in maniera onorevole”. Cosa che, nell’ottica di Renzi, gli permetterebbe di federare quell’area di centro liberale, da Calenda alla Carfagna (“Perché non dovremmo starci?”, dice non a caso Matteo Richetti), e martellare quotidianamente su un governo così fragile da essere condannato all’immobilismo. Il che magari piacerà anche a Goffredo Bettini, ma viene visto come una condanna al martirio da parte di buona parte del Pd. Ed ecco allora, di nuovo, Franceschini a bloccare l’azzardo. “Ma vi pare che noi possiamo restare al governo col M5s – ragiona, in mezzo al Transatlantico, il capogruppo di Leu Federico Fornaro – avendo contro Renzi, Salvini, Meloni e Berlusconi?”. E infatti Luciano Nobili, renziano, prova a punzecchiare i colleghi del Pd: “Ora che Matteo propone l’elezione diretta del premier, voi resterete a fare i paladini del proporzionale?”.

 

La verità è che neanche Renzi si aspetta troppo entusiastiche reazioni. “I primi giorni ci attaccheranno tutti, restate calmi”, ha catechizzato i suoi durante la cena a Trastevere di martedì. E non a caso il primo a stroncarlo, mercoledì, è stato il suo Andrea Marcucci: “Il paese ha altre priorità che non le riforme costituzionali”, ha sentenziato Marcucci. Troppo evidente, del resto, l’operazione renziana: porsi al centro della scena, mettere Conte all’angolo e alimentare le divisioni sia nel centrodestra sia, appunto, nel Pd. Ecco perché al Nazareno tornano ad accarezzare l’ipotesi del voto a settembre. Trovando terreno fertile anche nell’esasperazione di una fetta dei riformisti dem che pure sanno che, per loro, la compilazione delle nuove liste potrebbe essere uno stillicidio. “Ma obiettivamente non resta che il voto, se Renzi continua così”, sbuffa Alfredo Bazoli, reduce dall’ennesima battaglia, dall’ennesima forzatura dei renziani in commissione Giustizia, dove la maggioranza s’è dovuta aggrappare a un escamotage procedurale per non andare sotto sul solito emendamento Costa contro la riforma Bonafede. E però no, neppure al voto si può andare. “Qualsiasi scenario vogliate farvi, se prevede il voto prima del 2023 è uno scenario sbagliato”, dice il giurista Stefano Ceccanti. E anche qui, il refrain che circola, tra i banchi del Pd, è sempre lo stesso: “Franceschini non vuole”. Quello che vuole, dice chi lo conosce, è provare a tenere insieme, ancora un po’, Renzi e Conte nella stessa maggioranza. Ancorare il primo al governo, e al tempo stesso limitarne lo spazio al centro attraverso la legittimazione politica del premier attuale. Ardita, certo, come operazione. Ma forse, accontentando Renzi sulle nomine, lo si riuscirà ad ammansire. O quantomeno a tenerlo calmo, per un po’.

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