Matteo Renzi e Giuseppe Conte (foto LaPresse)

La gran competizione tra gli antipopulisti

Claudio Cerasa

Il Parlamento più populista della storia si ritrova dominato da partiti intenzionati a rinnegare il populismo. E Renzi ha deciso di surfare su questa svolta imprevista. Perché la competizione Lega-FdI e Pd-Iv può portare sorprese (e molti popcorn)

Sono passati poco meno di due anni dal famoso 4 marzo che avrebbe dovuto sconvolgere gli equilibri della politica italiana e che avrebbe dovuto cambiare per sempre i connotati della nostra nazione. Dopo quel voto, come molti di voi ricorderanno, si disse che l’Italia sarebbe stata condannata a essere governata a lungo da un bipolarismo populista, si disse che l’estremismo sarebbe stato chissà per quanto tempo la cifra culturale del nostro paese e si disse che i partiti antisistema avrebbero inevitabilmente dominato la seconda potenza industriale d’Europa almeno fino alle prossime elezioni.

 

E invece, a nemmeno ventiquattro mesi da quel pazzo appuntamento elettorale, lo scenario che si presenta di fronte ai nostri occhi, e sul quale Matteo Renzi ieri sera da Bruno Vespa ha provato a surfare, ci mostra una verità che sarebbe stata difficile da immaginare il giorno dopo quelle elezioni che avrebbero dovuto cambiare la storia italiana. E per quanto paradossale possa essere, la verità oggi è questa: il Parlamento con il più alto tasso di populismo della storia d’Italia si ritrova dominato da una serie di partiti che all’improvviso sentono fortissimamente il desiderio di togliersi di dosso la fama di populisti. In un certo senso, la proposta lanciata ieri sera da Matteo Renzi – allargare quanto più possibile il perimetro del governo o quantomeno alzare l’asticella di questo esecutivo per approvare entro il 2023 una serie di riforme istituzionali e costituzionali utili a dare un senso a questa legislatura – intercetta un umore che forse non si trasformerà in una nuova maggioranza parlamentare ma che comunque esiste ed è forse la novità politica più interessante del momento. Riavvolgiamo il nastro.

 

Il Movimento 5 stelle ha scelto come splendida scusa per fare un governo con il Pd, ad agosto, la lotta necessaria contro l’estremismo populista, rappresentato da Salvini, e oggi è uno spettacolo degno del migliore Beppe Grillo vedere un movimento nato da un vaffa che si impegna, con toni fintamente moderati, ad ammonire tutti coloro che “tentano di spezzare la fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni”. La Lega di Matteo Salvini, dopo la sveglia del Papeete, dopo la sveglia dell’Emilia-Romagna, dopo la sveglia della Consulta, dopo la sveglia di Savoini, dopo la sveglia della Gregoretti, ha scelto di cercare un modo per dimostrare di non essere un partito estremista e il braccio destro e sinistro di Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, è arrivato persino a sconfessare gli antieuro del suo partito, a lanciare Mario Draghi come presidente della Repubblica e a non escludere il sì della Lega a un governo di unità nazionale, a condizione che sia di durata breve. Allo stesso tempo, la competizione con una Lega estremista ha avuto l’effetto di vitalizzare un partito cresciuto nei consensi, e ovviamente parliamo di Fratelli d’Italia, e negli ultimi tempi uno dei punti di forza comunicativi di Giorgia Meloni – più vicina a Washington che a Mosca, più vicina ai conservatori che all’AfD, più vicina agli europeisti critici che agli euroscettici convinti – è stato proprio quello di essere percepita come la rappresentante di una destra meno populista rispetto a quella incarnata da Salvini.

 

Lo stesso Matteo Renzi, in fondo, per mettere in discussione la maggioranza di cui ancora fa parte – maggioranza che tra l’altro si ritrova sempre compatta quando tenta di denunciare Renzi per via del suo populismo – non ha scelto un tema casuale su cui provare a rompere, ma ha scelto un tema preciso con cui dimostrare una tesi in questo caso non difficile da dimostrare: l’incapacità del suo vecchio partito di combattere fino in fondo, sulla prescrizione, l’estremismo giudiziario veicolato da ciò che resta del Movimento 5 stelle. Il Parlamento più pazzo del mondo, nato con un gigantesco rutto degli elettori, vive così una fase interessante, gustosa, dove buona parte della fauna populista tenta in tutti i modi di apprendere qualche nozione minima dal bignami del galateo istituzionale. E in un certo senso la proposta lanciata ieri da Matteo Renzi, mettiamoci tutti insieme per far sì che alla fine di questa legislatura sia possibile eleggere un sindaco d’Italia, fa leva proprio su questa spassosa evoluzione della legislatura. Probabilmente la proposta di Renzi cadrà nel vuoto (salvo forse l’idea di discutere in Parlamento della sfiducia costruttiva) e non è da escludere che lo stesso ex presidente del Consiglio decida di rimanere nel perimetro dell’attuale maggioranza di governo (cosa molto difficile ma che a differenza di qualche giorno fa lo stesso Renzi non esclude più).

 

Ma il fatto che nelle ultime ore, così risulta al Foglio, ci sia stato un pezzo importante di Lega che ha fatto sapere sia al Pd (chiedere al capogruppo alla Camera) sia al partito di Renzi (chiedere al suo capogruppo al Senato) di avere buoni margini di manovra per provare a portare Salvini sulla posizione del governo istituzionale è un dato che si può spiegare solo riportando fedelmente, seppur anonimamente, le parole consegnate a chi scrive due giorni fa da un leghista importante: “Fare un governo tutti o quasi insieme, anche se per un tempo limitato, potrebbe avere un senso, in una fase in cui il paese si troverà tra l’altro ad affrontare una crisi economica vera, perché ci permetterebbe di dimostrare che al contrario di quello che si pensa la Lega, a differenza di Fratelli d’Italia che mai sosterebbe un esecutivo del genere, è tutto tranne che un partito irresponsabile”. E’ difficile immaginare come andrà a finire questa nuova gara di wrestling – ci si picchia, sì, ma più per fare spettacolo che per mandare ko l’avversario, che visto mai poi si dovesse veramente andare a votare – ma non è difficile immaginare che gli ex compagni di partito di Matteo Renzi, ovvero i dirigenti del Pd, non tentino di portare avanti loro quella che il leader di Italia viva chiamerebbe la mossa del cavallo. In altre parole: sfruttare l’allontanamento di Renzi dalla maggioranza per certificare la fine di questa maggioranza e rinunciare così a quello che i vertici del Pd, e forse anche quelli del M5s, definirebbero senza giri di parole il populismo renziano. Giusta o sbagliata che sia, la cifra della legislatura più pazza del mondo oggi è questa: fare di tutto non per far prevalere un populismo sull’altro ma, al contrario, per far prevalere un antipopulismo sull’altro. Le scenette dei populisti che combattono gli antipopulisti ricordano in una certa misura il Paolo Villaggio del “Secondo tragico Fantozzi”, impegnato con qualche difficoltà a mangiare con le forchette un tordo intero a casa della contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Non tutti i tentavi di buona educazione producono gli effetti sperati ma dopo i rutti del 4 marzo del 2018 vedere i populisti che provano a mostrare al mondo come sono diventati bravi a mangiare con la bocca chiusa è uno spettacolo per il quale due anni fa in tanti sarebbero stati disposti a pagare il biglietto.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.