Matteo Salvini (foto LaPresse)

L'ora dell'uomo forte

In politica un mito leva l’altro. Solo due anni fa era la democrazia diretta a fare la parte del leone

Secondo il Rapporto Censis 2019, il 67 per cento degli operai, il 62 per cento delle persone meno istruite e il 56 per cento delle persone con redditi bassi vorrebbe l’“uomo forte”.

Sì, il pendolo sembra ora spostato: solo due anni fa, era la democrazia diretta a fare la parte del leone. Ora, l’opposto, l’uomo forte, che non deve rispondere al Parlamento: “Che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni”, secondo quello che scrive il Censis. 

  

Cominciamo dalla democrazia diretta.

Il mito è stato coltivato nel contesto della democrazia digitale. I proponenti, il M5s, alla prova dei migliaia di commi delle leggi italiane, si stanno rendendo conto che si tratta di prospettiva mitologica e hanno lentamente fatto passare in secondo piano il tema. Non sono neppure riusciti a introdurre più partecipazione al livello amministrativo, ciò che sarebbe stato possibile e utile. Così il mito Rousseau è caduto nel dimenticatoio, dopo aver inquinato la discussione politica. Resta una vaga attesa di maggiore coinvolgimento della società (il “popolo”) nei processi di decisione collettivi.

 

 

Interviene, a questo punto, l’altro mito, quello dell’uomo forte, evocato da Salvini con la richiesta di “pieni poteri” e ora diffuso nel senso detto dal Censis.

Anche qui bisogna ricordare il contesto. Questo è dominato dalla frammentazione politica. Non si tratta soltanto del multipartitismo, ma dello sfarinamento dei partiti. Dal Pd è nata Italia viva. Ora da Forza Italia si distacca Voce libera. Noti che nessuna forza politica usa il termine partito. Bisognerebbe ricucire, invece si strappa. La politica dovrebbe dedicarsi a fare una offerta, quella che si denomina offerta politica (programmi, idee per il futuro, indicazione di prospettive); invece, ruota tutta intorno alle tasse, per toglierle, metterle, rimetterle, come se le tasse non fossero un mezzo, non un fine. Renzi ha lamentato nel suo bel discorso parlamentare sul finanziamento dei partiti, il “vuoto della politica”: ma lui stesso vi ha contribuito, perché non è riuscito a disegnare un futuro per l’Italia, a riaccendere una speranza intorno a un’idea, a suscitare energie nuove su un programma. Insomma, le forze politiche italiane sono troppo divise, troppo incapaci di sintesi e compromessi. Per capire la differenza, basta fare il paragone con le recenti elezioni politiche britanniche: pur con tutti i suoi difetti, il Regno Unito, dopo tre anni di sofferti dibattiti, è riuscito a uscire dal tunnel Brexit, per avviare l’uscita dall’Unione.

 

Ma l’uomo forte è una soluzione realistica o anche qui si tratta di un mito agitato da una speranza?

Chi voglia rispondere a questa domanda deve riflettere su due punti. Il primo riguarda Crispi e Mussolini, i due uomini forti che l’Italia ha avuto. Che hanno cambiato? Come hanno contribuito al progresso del Paese? Se vi hanno contribuito, con quali costi, in termini di libertà? Su Crispi c’è una ricca letteratura: quello che fece fu presto disfatto e quello che non fece superò quello che fece. Su Mussolini, bisogna leggere e rileggere quel grande libro che è La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, di Guido Melis (Bologna, il Mulino, 2018), dove viene spiegato quanto della vecchia Italia liberaldemocratica fu utilizzato da Mussolini e quanto poco efficace fu il fascismo, nonché quali costi fece pagare alla società per tenere sotto controllo o eliminare ogni opposizione.

 

Il secondo punto?

Dopo settant’anni di libertà, sia pure condizionata dall’ineguale applicazione della Carta costituzionale, la società civile quanto tollererebbe un uomo forte?

 

Ambedue le prospettive sono, quindi, false, mitologiche, anche se attraggono tanti oscillanti consensi. Come se ne esce?

Dedicandosi alla ricostruzione di una classe dirigente. Se un effetto hanno prodotto e stanno producendo questi due miti, quello della democrazia diretta e quello dell’uomo forte, è quello di mettere a tacere quel poco di classe dirigente che c’era in Italia. Possiamo dire che vi sia qualche cosa di simile all’“establishment”? C’è un’alta burocrazia? Ci sono “public intellectuals”? Se volgiamo lo sguardo in giro, vediamo una classe industriale afona o senza personalità di rilievo, con organizzazioni ridotte a “lobbies”; una burocrazia che ha perduto i suoi punti di riferimento al vertice, assoggettata ai partiti e con scarse capacità interne, a causa del continuo reclutamento fatto alla carlona, per via di amicizie, cordate, clientele, senza concorsi; una intellettualità supina, senza voce, anch’essa soggetta a norme irreali (pensi soltanto alla neoburocrazia Anvur, ai concorsi universitari e alle carriere universitarie decise dai giudici e dalle procure, alla modestia di tanta parte della classe insegnante). Insomma, pur in presenza di eccezioni in ognuna di queste tre aree, il bilancio dello stato attuale della classe dirigente è negativo.

 

Che fare?

Quello che ho descritto è uno stato di cose che richiede interventi solleciti, con risultati lontani nel tempo, il contrario di quello che la nostra modestissima classe politica desidera. Essa punta sempre a risultati immediati, con costi spostati nel tempo.

 

Ma quali sono questi interventi?

Ricostruire un tessuto industriale che non sia provinciale. Se occorre far rivivere qualcosa come l’Iri o l’Eni dei bei tempi, quelli iniziali, ebbene facciamolo. Promuovere un ristretto manipolo di grandi burocrati e metterli al vertice, affidando loro il compito di curare quella macchina malaticcia che è oggi la burocrazia italiana. Istituire fuori delle università cinque o sei centri di alti studi e di ricerca, che facciano da incubatori di nuove menti, che escano dalle chiusure burocratiche e disciplinari, lavorino sui confini e sulle intersezioni delle discipline. Insomma, un sogno.

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