Matteo Salvini si fa un selfie con dei sostenitori (foto LaPresse)

La patologica fame di emozioni di cui soffre il popolo ha contagiato la politica

Damiano Palano

Il circolo vizioso del selfie-government

Nell’ottobre 2017, aprendo il primo meeting della sua Fondazione, Barack Obama spiegò ai sostenitori perché da quel momento non si sarebbe più prestato alla liturgia dei selfie. “Le persone che incontro non mi guardano più negli occhi”, “si avvicinano a me solo così”, disse mimando il gesto con cui di solito si armeggia sullo smartphone per regolare l’autoscatto. Se per fare una bella foto ci precludiamo la possibilità di avere una conversazione con qualcuno, di ascoltare quello che dice o di guardarlo negli occhi, disse allora Obama, finiamo col “creare qualcosa che ci separa dagli altri invece che approfondire la relazione con loro”. La posizione del predecessore di Donald Trump alla Casa Bianca rimane fino a questo momento probabilmente un unicum. Il rituale del selfie conclusivo è invece entrato a pieno diritto nella fenomenologia delle forme di aggregazione politica, e proprio per questo mostra in modo quasi paradigmatico i tratti di quel nuovo soggetto che popola la scena contemporanea. E’ per molti versi proprio a questo soggetto sfuggente che Luigi Di Gregorio dedica buona parte del suo “Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico” (Rubbettino, pp. 314, euro 18), un saggio nel quale rifluiscono tanto i risultati di una ricca attività di ricerca quanto l’esperienza di consulente politico. Secondo il politologo è proprio nella psicologia dell’odierno “uomo-folla” che vanno rinvenute le cause del “malessere democratico”. La tesi di fondo di Di Gregorio – il quale si discosta dalle diagnosi avanzate in questi anni da molti osservatori – è cioè che a essere “malato” sia proprio il popolo. E la patologia di cui soffrono i sistemi politici contemporanei è per lui soprattutto l’esito della trasformazione culturale che, nella transizione alla modernità, ha investito i cittadini delle democrazie occidentali, travolti da un lungo catalogo di processi degenerativi: “Individualizzazione, perdita di senso sociale, fine delle metanarrazioni, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, narcisismo, nuove percezioni e concezioni di tempo e spazio, trionfo della sindrome consumistica e della logica totalizzante dell’‘usa e getta’, fine dei luoghi pubblici relazionali e proliferazione dei nonluoghi”.

 

Il Novecento è stato segnato della presenza delle masse. Anche se i secoli precedenti avevano conosciuto molte forme di azione collettiva, le masse compatte, organizzate, disciplinate del “secolo breve” avevano qualcosa di differente dalle vecchie sommosse di piazza, dalle moltitudini urbane che chiedevano pane e dalle folle che assaltavano i forni. Insieme alle grandi ideologie del Novecento, le masse sembrano però essere uscite dalla scena, e neppure quei movimenti che spesso chiamiamo “populisti” sembrano in grado di riconsegnare loro un ruolo. L’“uomo-massa” secondo Di Gregorio è stato sostituito proprio da un “uomo-folla” volubile, privo di solide credenze, narcisista, che come il consumatore deve nutrirsi di nuovi protagonisti dello spettacolo politico. In altre parole, secondo Di Gregorio, la postmodernità segna in politica il culmine della parabola dell’homo ludens: “Un individuo che ha progressivamente abbandonato il valore del ritardo della gratificazione” e che lo ha sostituito con “la ricerca spasmodica e continua della gratificazione immediata”. A veicolare la transizione sarebbero stati soprattutto i media. La personalizzazione e la mediatizzazione della politica avrebbero cioè incrementato la life politics, ossia l’importanza attribuita alla vita quotidiana, ai suoi dettagli, al puro gossip. Ma avrebbero anche innescato la trappola della fast politics, che costringe i leader politici a dover adottare – o meglio: a dover annunciare – misure immediate (nonostante dopo qualche giorno nessuno ricordi più nulla di quei provvedimenti tanto urgenti). Ciò che resta è una “sondocrazia” permanente, in cui l’opinione pubblica diventa “emozione pubblica”, volatile, volubile. Il cittadino-elettore si allontana dalla logica dell’elettore razionale. Più che un voto di opinione, il suo tende a diventare un “voto di emozione” fluttuante. Ma è proprio per alimentare nuovi emozioni che lo spettacolo non può evitare di cercare nuovi protagonisti e nuovi “eroi”, strappandoli ad altri campi e proiettandoli nell’agone elettorale. E quegli outsider devono ricorrere all’arsenale della demagogia, a promesse irrealizzabili. Collocate al centro di una discussione schematica, le questioni politiche finiscono per essere semplificate, banalizzate, ridotte a opposizioni binarie. E nel circolo vizioso chiunque può convincersi di poter ricoprire cariche istituzionali, come se l’abilità retorica di suggerire in un talk-show soluzioni miracolose per i problemi della disoccupazione giovanile, del debito pubblico o dell’evasione fiscale equivalga alla concreta capacità di tradurre quegli slogan in misure strutturate e in un esercizio adeguato dell’attività di governo.

 

Ad alimentare le code di ammiratori in attesa di un autoscatto è l’ossessione narcisistica di voler apparire. E proprio per questo nessuna di quelle immagini diventerà probabilmente memorabile. D’altronde, se nessuna società del passato ha mai avuto la capacità di conservare una memoria così dettagliata e sistematica di tutto ciò che accade in ogni istante quasi in ogni luogo del pianeta, nessun’altra epoca ha mai percepito i frammenti del proprio passato con la stessa sensazione di futilità che proviamo quando, frugando nella memoria fisica dei nostri smartphone, ci rendiamo conto che quasi nulla di tutto ciò che conserviamo meriti davvero di essere ricordato. Ma – ci avverte Di Gregorio – la voracità con cui l’homo ludens immagazzina fotografie, filmati, messaggi che finiranno dimenticati nei meandri della memoria digitale dei suoi dispositivi è in fondo la stessa con cui il cittadino delle democrazie contemporanee divora i protagonisti dello spettacolo politico. E in questo interminabile pasto cannibale – più che la “verità”, da sempre in conflitto con le logiche del potere – la vittima principale non può che essere proprio la politica. Perché nel grottesco circolo vizioso del selfie-government, proprio nulla sembra in grado di sottrarsi al vortice della futilità.

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