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Regionali e non solo. I parlamentari del M5s spingono Di Maio verso il Pd

Valerio Valentini

Voci e ribelli. Perché per il leader pentastellato non sarà così facile archiviare il patto elettorale con il Partito democratico

Roma. La sintesi dei malumori grillini sta nello sfogo di Paolo Lattanzio. “Questa è l’ennesima capriola di Di Maio, che fa un passo avanti e mezzo indietro”, sbuffa il deputato pugliese, su una panchina del cortile di Montecitorio. “Ormai ti sei sporcato le mani, col Pd? Non puoi contraddirti immediatamente. Così facendo, Luigi scontenta sia quelli come te – dice Lattanzio al collega veneto Rapahael Raduzzi – che all’intesa erano contrari a priori, sia quelli come me che sono favorevoli”. Perché più del merito della scelta, a stordire la truppa dei parlamentari del M5s è l’apparente leggerezza con cui il capo politico dice tutto e il suo contrario. “E’ indecifrabile”, se la ridono alcuni deputati lombardi. “Più che altro è non pervenuto”, sentenzia, riflessivo, Giorgio Trizzino.

  

Voleva sabotarlo, l’accordo col Pd, Di Maio. Questa è la convinzione di parecchi, nel M5s: così si spiega l’ansia con cui, a poche ore dal disgraziato spoglio in Umbria, ha sentenziato con categorica risolutezza la fine dell’alleanza demogrillina. “La verità è che parlando del fallimento del ‘patto civico’ si nascondono le vere ragioni della sconfitta, che sono tutte interne al Movimento”, dice il senatore spoletino Stefano Lucidi, uno che la sua terra l’ha battuta palmo a palmo, durante la campagna elettorale, e che ha bene in mente “le nostre piazze mezze vuote, a confronto con quelle strapiene di Salvini e quelle comunque affollate del Pd”. E allora è un po’ per evitare di fare quell’“autocritica” che perfino un fedelissimo come Sergio Battelli ormai invoca, che Di Maio vorrebbe subito archiviare la stagione delle intese territoriali col Pd. E un po’ è anche perché “ora Luigi ha deciso che vuole fare l’interprete del ritorno alle origini”, sibila Lattanzio. Ma se il ministro degli Esteri ci tiene tanto, a boicottare il progetto di trasformare questo accordo di governo in qualcosa di più organico, è perché sa che a quel punto il riferimento obbligato, sia per gli esponenti del M5s sia per gli alleati, sarebbe Giuseppe Conte. “Col premier il dialogo è buono”, conferma, lapidario, Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia e consigliere stimato di Nicola Zingaretti. E lo stesso Lucidi, in contrapposizione ai “continui ripensamenti” di Di Maio, addita proprio la fermezza di Conte: “E’ più che condivisibile l’idea del presidente del Consiglio: la bontà di un progetto non puoi stabilirla al primo tentativo. Meglio proseguire”. Che è poi quello che pensa anche il corregionale Filippo Gallinella: “Bisogna assolutamente riprovarci”.

 

Di Maio invece tentenna. Sa, perché sono arrivate anche lui le raccomandazioni che per altre vie Dario Franceschini ha fatto arrivare a Lorenzo Guerini, che al momento Conte è intoccabile, perché è lui l’uomo del Quirinale, il garante di questa precaria alleanza di governo. E così, non sapendo bene cosa fare, il capo grillino – che intanto si vede arrivare le notizie di defezioni dalla Sardegna e quelle sulle dimissioni della sindaca di Imola, tutte condite da polemiche intestine – convoca nel tardo pomeriggio parlamentari e consiglieri regionali emiliani e calabresi. Più per scaricare la responsabilità della scelta, che non per condividerla. “Io lo dirò forte e chiaro che per me tornare indietro, ora, è una scemenza”, confessa il vibonese Riccardo Tucci, consapevole che invece, tra Bologna e Rimini, i suoi colleghi la pensano all’opposto. “E non solo in Calabria, ma in generale: ormai la strada tracciata è quella del centrosinistra, e non possiamo tornare indietro”. E l’impressione è che del resto, se Di Maio lo facesse, si ritroverebbe senza truppe. Perché è vero, come va ripetendo Stefano Buffagni, che “di alternative a Luigi non ce sono”, ma è anche evidente, passeggiando tra Montecitorio e Palazzo Madama, che di soldati pronti all’estremo sacrificio per un capriccio del capo non ce ne sono. “Staccare la spina ora che abbiamo l’8 per cento? Sarebbe un suicidio”, dice il deputato Alessandro Amitrano. A metà pomeriggio, al centro del Transatlantico, gli animatori del dissenso interno si riuniscono in capannello. Ci sono quattro pugliesi (oltre a Lattanzio, Francesca Galizia, Nunzio Angiola e Michele Nitti), tutti concordi sulla necessità di correre insieme al Pd, nelle regionali del 2020, e l’abruzzese Gianluca Vacca, già sottosegretario ai Beni culturali, che quando si sente richiesto di esprimere un giudizio, mostra divertito, sullo schermo del suo smartphone, una vignetta di Altan: “E’ una situazione da interpretare”, recita. Ma l’immagine ritrae il solito malcapitato con l’ombrello nel sedere. Al centro del gruppo, con l’aria di chi un po’ catechizza e un po’ ascolta le lamentele, c’è Trizzino. “Non c’è alternativa per noi: bisogna costruire una piattaforma progressista insieme al Pd. Ed è un bene che si rinsaldi l’asse tra il Nazareno e Conte, perché da lì passa l’argine alla destra estrema di Salvini e Meloni”. Di Maio capirà? “Dovrà capire”.

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