(Foto LaPresse)

Il vizio del cambiamento

Salvatore Merlo

Zingaretti vuole (ri)cambiare il Pd, dopo aver provato a cambiare sede al Pd. Il periplo del dito attorno all’uovo

Pci, Pds, Ds, Pd… Appena eletto segretario, sette mesi fa, guardandosi attorno, Nicola Zingaretti capì che tutto era già stato cambiato, e così tante volte per giunta, che forse l’unica cosa che poteva cambiare lui per lasciare traccia del proprio passaggio nel partito era organizzare un trasloco: “Vorrei cambiare la sede nazionale del Pd. Dobbiamo sbaraccare e ricostruire, aprire una nuova e bella sede con una libreria al piano terra”. Era il 19 marzo 2019. Sette mesi e undici giorni dopo, il Pd è sempre lì, in Largo del Nazareno, come pure è sempre lì il pungolo incandescente della novità e del cambiamento: “Daremo vita a un nuovo partito che si chiamerà Partito democratico o quello che decideremo”, ha detto ieri Zingaretti a Radio Capital. Al netto dell’impressione diffusa, anzi quasi della certezza, che un “Partito democratico” già esista e che Zingaretti ne sia il segretario, l’altro perturbante déjà-vu che avvolgeva ieri gli ascoltatori della radio riguardava la sola cosa ferma, certa, famigliare, ripetitiva della politica italiana: il bisogno urgente, viscerale, per non dire intestinale, del cambiamento. Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per dire, dopo aver proclamato “la Terza Repubblica” e solennizzato una “rivoluzione culturale” ci consegnarono a giugno del 2018 niente meno che un “governo del cambiamento”. Che era una cosa tipo il cambiamento dei cambiamenti, il cambiamento al cubo, il super cambiamento, l’iperbole di un’iperbole. Ecco. “L’esca del negoziante è la novità”, diceva Goethe. Ma persino Giorgio Mastrota e i suoi colleghi telebanditori di materassi e pentole sanno che la continua ripetizione di una stessa immagine ingenera noia, disgusto, e infine una vera intolleranza fisica. L’utente è sbrigativo. Quando vede, sera dopo sera, le stesse persone, nello stesso ordine, ripetere le stesse cose con lo stesso linguaggio, giunge alla conclusione che costoro parlano soltanto perché hanno la lingua. E qui è tutto il punto. Nessuno pretende dai politici il brio di Goldoni. Ma poiché essi stessi si sono messi al centro della scena, possiamo almeno pretendere che non insistano nel chiamare nuovo, originale, stimolante, eccitante e “cambiamento” l’eterno periplo del loro dito attorno allo stesso uovo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.