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Il giallo dei Verdi

Marianna Rizzini

Greta vola, gli ambientalisti sfondano, ma nel nostro paese l’ecologismo è un flop. Piazze piene, urne vuote. Indagine su un gran mistero italiano

Quando il verde non è il colore della Lega ma quello dell’ambientalismo può succedere una cosa strana: che il verde si colori di giallo. Nel senso del mistero: dove sono, a che punto sono e che cosa fanno, ora, i Verdi italiani, dopo essersi riaffacciati alle Europee? Soprattutto: perché non battono, o sembrano non battere, il ferro caldissimo della protesta climatica, quella che riempie le piazze targate Greta Thunberg?

 

Il giallo è proprio qui, perché è qui che le forze ambientaliste, a differenza di quelle di altri paesi europei, si sono fatte fenomeno carsico, nonostante il peso crescente del mappamondo, inteso come simbolo degli eventi di piazza intitolati “Fridays for future”. Appaiono, le forze ambientaliste, ma non in modo stabile. Scompaiono, ma non del tutto. Emergono dal web, più che come propulsori di cambiamento nelle politiche sull’ambiente, come coprotagoniste di polemiche forse non al primo punto dell’ecoagenda – per esempio quella sui concerti estivi in spiaggia di Lorenzo Jovanotti, con il cantante criticato per eccessivo impatto ambientale da varie sigle ambientaliste, e con le sigle ambientaliste messe sotto accusa dal cantante sui social. “Il Jova Beach Party parla di comportamenti da adottare con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale”, scriveva Jovanotti, stupito che il suo tour avesse scatenato “un delirio nei social, una miriade di cazzate sparate a vanvera da chiunque, una corsa al like facile da parte di sigle e siglette che hanno approfittato ogni giorno della visibilità… Hanno detto che abbiamo abbattuto alberi, sterminato colonie di uccelli, spianato dune incontaminate, costruito eliporti (eliporti!)”. Avevo contattato il Wwf preventivamente, si discolpava Jovanotti, “per chiedere a loro un parere. Non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell’associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al ‘fact checking’ di molte testate”. “Siamo esterrefatti dal linguaggio che Jovanotti ha utilizzato su Facebook. La sua è una caduta di stile che ci ha lasciato amareggiati”, rispondeva Maria Rita Signorini, presidente dell’associazione Italia Nostra.

   


I Friday for Future pieni, ma anche le percentuali basse e le polemiche sull’“impatto ambientale” di Jovanotti. Che cosa ne pensano Angelo Bonelli, Alfonso Pecoraro Scanio, Paolo Cento, Chicco Testa, Rossella Muroni, Elly Schlein


 

Jovanotti a parte, a volte ci si domanda dove siano gli ambientalisti italiani in carne e ossa, sicuramente più equilibrati nelle critiche e quindi potenzialmente più efficaci nella raccolta di consenso verso la causa verde degli odiatori da social network che si scatenano, senza differenziare, contro Jovanotti come contro il meteorologo e climatologo Franco Prodi, portatore di dissenting opinion sul cambiamento climatico, così espressa qualche settimana fa in un’intervista all’Huffington Post: “Con Greta siamo di fronte a un abbaglio mondiale”, diceva Franco Prodi, “questo movimento incanala nella direzione sbagliata, cioè la lotta al riscaldamento globale, quella che in realtà è un’urgenza giusta, ovvero la salvaguardia del pianeta. Al momento nessuna ricerca scientifica stabilisce una relazione certa tra le attività dell’uomo e il riscaldamento globale. Perciò dire che siamo noi i responsabili del riscaldamento climatico è scientificamente infondato”. Sui social sono piovuti anatemi su anatemi. Ma perché, ci si chiede, quelli che potrebbero, in Italia, tradurre in azione politica adulta la protesta di Greta Thunberg sono al momento meno visibili dei rumorosi interventisti da web? E perché qui non è successo quello che è successo in Germania, dove i Grüne sono arrivati a sfiorare alle Europee il 20 per cento, o in Francia, dove, con il 12 per cento, si sono fatti terzo partito, o in Gran Bretagna, dove hanno raggiunto l’11 per cento?

  

Vero è che l’esperimento Verdi più Possibile – Europa Verde – qui ha raggiunto il 2,3 per cento, prima che tra i Verdi italiani e Possibile di Pippo Civati si scatenasse la polemica per la vicinanza alla destra di due candidati di Europa Verde, come segnalato da Luciano Capone su questo giornale. E a quel punto Pippo Civati si era ritirato dalla campagna elettorale. Prima ancora, era successo che il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, con la sua Italia in Comune, lasciasse l’embrionale accordo con le forze verdi per virare su +Europa. Vedendo quel 2,3 per cento, dunque, che non è pochissimo ma neanche abbastanza per entrare al Parlamento europeo, all’indomani delle Europee ci si interrogava: da che cosa è frenata la possibile “onda verde” italiana? Dalla legge elettorale che per ora rende la vita difficile a chi si trova a lato delle formazioni principali, dalle precedenti divisioni a sinistra che hanno assorbito parte dell’elettorato ambientalista, dalla presenza dei Cinque stelle che hanno adottato, in quattro delle cinque stelle del simbolo, alcuni temi forti dell’ambientalismo? O dalla preclusione ideologica nei confronti del progressismo liberale, dal talebanismo sulle infrastrutture (Tav e non solo) e dal non aver reso auto-evidente, come in molti casi europei, il legame tra politiche ambientali e politiche sociali?

 

Se si girano questi interrogativi ad Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dell’esecutivo dei Verdi, ex deputato verde ai tempi dell’Unione di Romano Prodi (2006) con lunga esperienza nell’ambientalismo, allora portatore della linea contraria alla convergenza tra Verdi e sinistra-sinistra, Bonelli pensa tuttora che “uno dei più gravi errori sia stato quello di sovrapporre le politiche verdi a quelle delle sinistra radicale; i verdi sono cultura progressista ma anche liberale”. E però, dice, oggi “si può avviare una fase nuova. Siamo già in una fase fondativa con Europa verde, e portiamo avanti una visione abbastanza scientifica, non approssimativa, con proposte su tema industriali. Questa manovra economica, intanto, a nostro avviso, non ha visione, altro che Green new deal. Detto questo, le mobilitazioni dei giovani stiano offrendo una nuova consapevolezza sulle questioni ambientali, anche se non è detto che questo porti a più consenso. Basti pensare che in Brasile, dove le politiche di Bolsonaro hanno infiammato la piazza, e dove il tema dell’Amazzonia predomina nel dibattito, un partito verde è inesistente. Il tema ambientale è da indirizzare”. In Italia, dice Bonelli, “i Verdi non hanno mai avuto le percentuali dei Verdi tedeschi, anche quando erano guidati da persone di comprovata capacità. Per ragioni storiche e strutturali. Oggi si cerca di ricostruire un nuovo percorso, e non soltanto all’interno della nuova generazione, facendo attenzione alle contraddizioni nel panorama politico: i Cinque stelle, per esempio, usano l’ambiente come strumento di lotta politica sul tema democrazia, e su questo hanno cercato di aprire un dialogo con i Verdi europei. Ma fino a che continuano a espellere gente è difficile che risultino credibili”.

 

Sia come sia, finora i Verdi italiani non hanno bucato lo schermo: “Non siamo invitati nel talk-show, in tv non esistiamo. Alla vigilia delle Europee soltanto trenta cittadini su cento sapevano che c’era una formazione verde e abbiamo preso in ogni caso il 2,3 per cento. Quando entrammo in Parlamento, nel 2006, il ministro dell’Ambiente era Alfonso Pecoraro Scanio, aveva preso il 2 per cento. Il nostro non è vittimismo. Noi senza vittimismo facciamo attività sui territori, abbiamo eletti nei consigli comunali e regionali. Certo, in Italia ci si deve chiedere anche come portare avanti una politica improntata principi di legalità. Italia e Germania, da questo punto di vista, non sono lo stesso paese”.

 


Il modello inesportabile tedesco, l’eredità pesante del Pci, l’esigenza di creare uno spazio extra-partiti per le politiche ambientali. Il problema del rapporto con la sinistra, e poi l’abbandono della componente liberale, la ricerca dei dirigenti. Poco spazio sui media


  

Elly Schlein, già europarlamentare pd poi tra i fondatori di Possibile, ora al lavoro per la costruzione di un fronte ambientalista-progressista in Italia, un “terzo spazio” senza ambiguità verso le politiche liberiste e i nazionalismi, dice che “nella società c’è già una sensibilità che tiene insieme l’urgenza di reagire contro l’emergenza climatica e contro le diseguaglianze di ogni tipo, si è manifestata spesso nelle mobilitazioni spontanee di questi mesi”, dice Schlein. “E’ la politica che è in ritardo. È come se quella voglia di mobilitarsi rimanesse schiacciata da un lato dalle contraddizioni ancora forti dei grandi partiti, dall’altro dalla frammentazione surreale del resto del campo ecologista e della sinistra, dettata più da personalismi e logiche identitarie che non da divergenze di visione. Sono dinamiche fortemente respingenti, soprattutto per i giovani. Bisogna riallacciare i fili dell’ascolto con quel che si muove già nella società su questi temi, costruendo una visione di futuro che tenga insieme transizione ecologica, redistribuzione e innovazione tecnologica”. Per l’ex europarlamentare che nella primavera scorsa non si è voluta ricandidare per “non dover spaccare”, diceva al Manifesto, “mondi che già lavorano insieme”, un Green New Deal non vuol dire “solo ripensare il modello di sviluppo per salvare il pianeta, ma anche rilanciare l’occupazione di qualità e in quantità. I verdi con cui ho lavorato a Bruxelles hanno ottenuto i risultati migliori laddove hanno saputo unire le battaglie ecologiste con quelle per i diritti e la giustizia sociale, ma anche rinnovare e formare la classe dirigente con persone credibili e preparate”.

 

Pensare più in grande, è questo il problema? Raggiungere un immaginario europeo più arioso in tema ambientale? Per Chicco Testa, imprenditore con storia nel mondo ecologista, già deputato dell’allora Pds, ex presidente di Enel e oggi di Sorgenia e Assoambiente, “il problema è nelle politiche e nell’impostazione, nel volersi porre inevitabilmente contro, dalla censura delle tesi di Franco Prodi, alla cultura del no che blocca gli investimenti sui rifiuti, fino alla polemica su Jovanotti – come se un milione di bagnanti potesse distruggere l’ecosistema – fino al livello di guardia di non accettazione della civiltà. C’è poi un problema di classi dirigenti: non ci sono grandi pensatori, nel fronte ambientalista, già prosciugato dalla sinistra, e ci sono tutti i difetti di un ceto politico che si autoriproduce”.

 

Chi, come Paolo Cento, ha fatto il percorso dai Verdi a LeU, pur nella consapevolezza che “il movimento verde non sia stato ancora in grado di sfondare”, preferisce leggere la storia dei Verdi italiani in chiave positiva: “Fino al 2008 la presenza dei Verdi era radicata in un paese in cui si è potuto incidere nel dibattito sul nucleare e sugli ogm, a differenza che altrove. Certo, i Verdi non sono diventati partito di massa. In parte per i limiti dei dirigenti, me compreso, ma anche per via della pesantissima eredità del Pci, caso direi unico partito in Europa. A un certo punto, negli altri paesi, la sinistra si è riconosciuta nella multiformità dei partiti verdi. Qui c’era e c’è il peso di un’eredità ideologica che si è tradotta in forza elettorale. Era difficile rompere, qui, l’ortodossia del voto comunista, fino e oltre la nascita del Pd”. Oggi però, dice Cento, “c’è una grande opportunità a sinistra. La sinistra non ha futuro se non dismette ideologie e se non sposa l’ambientalismo come arma contro il sovranismo. Si possono creare le condizioni per la nascita e crescita di un soggetto ecologista popolare. Poi c’è Greta Thunberg, che mette in campo un’altra generazione, libera dai vincoli ideologici della precedente. Uno spazio politico si apre davanti a noi, lo si può riempire”.

 

L’ex ministro verde dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, ora al vertice della fondazione Univerde, dal 2013 vota alla Camera per i Cinque stelle, formazione che a suo avviso ha assorbito “una parte di quello che era il programma verde”, e al Senato Loredana De Petris, nome storico dell’ambientalismo oggi in LeU. “Attenzione al quadro europeo”, dice: “Si fa sempre il paragone tra Verdi italiani e Verdi tedeschi. Ma attenzione: in Germania c’è Angela Merkel, è come se ci fosse ancora la Dc, come se da noi ci fosse ancora, chessò, Emilio Colombo. In Germania i Verdi hanno avuto uno spazio diverso: sono cresciuti dove, per molti anni, e parlo della Germania Ovest, vigeva il divieto di ricostituzione del Partito Comunista, a differenza che in Italia, dove il Pci è arrivato a superare il 30 per cento. Ma poi in Italia i Verdi hanno avuto una stagione importante, tra gli anni Novanta e i governi Prodi. Abbiamo fatto riforme che la Germania non è riuscita a fare, vedi in campo agricolo – la nostra agricoltura è la più green d’Europa – e sul nucleare. Certo, il sistema elettorale influenza, come la scelta politica, ai tempi di Walter Veltroni, di andare verso il bipartitismo invece che verso il bipolarismo. La Sinistra Arcobaleno ne è uscita distrutta, anche se non è questo l’unico motivo della crisi verde: la nostra azione di governo non è piaciuta ad alcune lobby, per esempio in campo petrolifero. Poi arriviamo al 2013: i Cinque stelle hanno raccolto una parte del programma ex verde. E non è un caso che il ministro Sergio Costa fosse nella segreteria del mio ministero”. E ora?: “C’è ancora spazio per soggetti ecologisti in Italia”, dice Pecoraro Scanio, “in Europa Verde, nei Cinque stelle, nel Pd, a sinistra. Spero nascano nuovi soggetti politici e spero che i Cinque stelle riescano davvero a intensificare il dialogo con i Verdi europei”.

 

L’ex presidente di Legambiente ora deputata di LeU Rossella Muroni ricorda i suoi vent’anni nell’associazionismo, ora che è entrata in politica: “In Parlamento non vedo un agire politico identitario, anche se per i Cinque stelle è in parte così sul tema legalitario. Manca una forza che faccia dell’ambiente un tema identitario. Anche se bisogna fare attenzione agli slogan: Virginia Raggi si è proposta all’elettorato come la sindaca dei rifiuti zero, e poi? Poi non c’è visione. Io non ho mai fatto parte dei Verdi, ma osservandoli da vicino posso dire che hanno dovuto agire in condizioni particolari rispetto ad altri paesi, direi in trincea. Come fai, per esempio, a spiegare che da noi c’è il problema dell’abusivismo edilizio a un politico del Nord Europa? Poi però i Verdi, come altri, si sono incagliati nei personalismi. E allora oggi, e lo dico anche a noi, a LeU, con maturità politica, guardando le piazze partecipate dei Friday for Future, dovremmo essere generosi e aperti, mettere il tema della sostenibilità ambientale al centro non soltanto di una lista elettorale. E non soltanto a sinistra”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.