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Ora Marattin (Pd) ci dice che i Cinque stelle non sono più “cialtroni”

David Allegranti

"E' giusto capire se questi 14 mesi di governo abbiano reso possibile un’evoluzione del modo in cui il M5s guarda ai problemi del paese e alle azioni necessarie per risolverli", dice il deputato dem

Roma. Luigi Marattin è stato uno dei contestatori più attivi del governo felpastellato, non risparmiando mai né M5s né Lega. Lo rintracciamo su WhatsApp mentre è in viaggio per Milano e sul treno non prende bene. Quindi ci armiamo di messaggi e di spunte blu.

 

Marattin, il Pd propone “cinque punti”. Cinque punti ‘non negoziabili’ per trattare con il M5s. La convincono? 

 

“Si, decisamente. Allontanano le derive pericolose (uscita da Ue, delegittimazione delle istituzioni della democrazia liberale, gestione disumana dei flussi migratori) che in passato avevano fatto capolino nel M5s, e disegnano la traiettoria di una politica pubblica autenticamente progressista. Nell’ultimo punto, accanto a ‘redistribuzione’ avrei personalmente aggiunto ‘crescita’. Senza crescita della torta, infatti, la redistribuzione non è mai efficace. Oppure ‘redistribuzione dinamica’, dà l’idea di un paese in movimento, che non si limita a redistribuire la ricchezza già prodotta ma si batte affinché ne si produca di più, e sia contemporaneamente meglio distribuita”. 

 

I 5 stelle però vogliono un nuovo contratto, con punti precisi. Può funzionare? 

 

“Il problema non è tanto come lo si chiami. Personalmente preferisco ‘programma’, e non è solo una questione nominalistica. Ma è chiaro che, a maggior ragione in questo caso, se si dovesse davvero partire serve estrema chiarezza sui contenuti della futura azione di governo. Ma io penso che il problema dello scorso contratto di governo tra Lega e M5S (aldilà dei contenuti che ovviamente non condividevo) non sia stato nel chiamarlo ‘contratto’… ma che era una sommatoria di due programmi distinti. Un punto a me (il reddito di cittadinanza) e uno a te (quota 100); uno a me (la legge anticorruzione), uno a te (il decreto sicurezza). Questo non è un programma politico coeso e coerente, in cui tutte le parti si riconoscano. E’ questo rischio che va evitato, sempre che davvero si creino le condizioni per partire”. 

 

La politica, come sappiamo bene, è l’arte del compromesso. Trovare soluzioni con le risorse che si hanno a disposizione. E questo lo capisco. Ma il suo Pd che c’azzecca, come direbbe Di Pietro, con la Casaleggio Associati? 

 

“Mi creda, vorrei tanto anch’io che la politica – soprattutto in un paese così strano come questo – fosse così semplice. Ma occorre guardare alla situazione con un po’ più di attenzione. Dopo il 4 marzo eravamo in questa situazione: due partiti (Lega e M5s) avevano ottenuto – seppur presentandosi separati alle elezioni – un consenso congiunto superiore al 50 per cento sulla base di una proposta politica molto chiara: la distruzione di quanto appena fatto dal Pd nei 5 anni precedenti. In quel contesto, non era giusto bensì sacrosanto dargli modo di governare per rispondere alle aspettative innescate nel paese”. 

 

E adesso cos’è cambiato? 

 

“Oggi, un anno e mezzo dopo, quel tentativo è fallito, per loro stessa ammissione: non solo perché non sono riusciti nel compito di azzerare le riforme precedenti (e per fortuna, dico io), ma anche perché hanno preso atto, come noi dicevamo da sempre, dell’impossibilità di coniugare quelle aspettative/promesse e la realtà dei fatti. E nel rompere quell’alleanza, uno dei due partiti ha annunciato di voler ‘pieni poteri’, di voler spendere 50 miliardi a deficit e – lo sappiamo dal famoso audio di Savoini, ma non solo – voler portare l’Italia nella sfera di influenza russa. A questo punto, la Costituzione (proprio quella difesa a spada tratta ogni volta che si vuole cambiare una virgola) impone al capo dello stato di verificare l’esistenza di una maggioranza alternativa in Parlamento. Se, preso atto del fallimento di questo anno e mezzo, il M5s è disposto ad aprire una stagione nuova che inauguri una fase diversa (e che magari completi finalmente con riforme istituzionali la transizione italiana iniziata nel 1993) questo è in corso di verifica in queste ore. E, contrariamente ad alcuni, non do per scontato alcun esito. Se si dovesse andar al voto sono pronto, come tanti, alla sfida elettorale”. 

 

Sono d’accordo, niente è scontato ed è giusto essere pronti a nuove elezioni. Però mi sta dicendo che il Pd può romanizzare i barbari o, per usare un vostro marchio di fabbrica, i cialtroni? 

 

Il Pd non deve romanizzare nessuno: il suo compito è sempre stato (e spero continui a essere) cambiare l’Italia e costruire e mantenere il consenso adeguato per farlo (abbiamo imparato che il primo punto è impossibile senza il secondo). E di coloro che sono convinti – come in passato è stato per alcuni esponenti M5s – che tutti i nostri problemi si risolvano uscendo dall’euro e mettendosi a stampare moneta (come pensa la Lega, ribadiscono anche in queste ore) penso le stesse cose che ho sempre pensato e sempre penserò. Ma è giusto capire se questi 14 mesi di governo abbiano o meno reso possibile un’evoluzione del modo in cui il M5s guarda ai problemi del paese e alle azioni necessarie per risolverli. Se non fosse così, sarei il primo a prendere atto che non c’è alternativa alle elezioni, e le affronterei senza paura. Le democrazie parlamentari funzionano così, è successo recentemente anche in Germania”.

 

Il M5s come la Cdu? 

 

“Se è per questo neanche il Pd è la Spd. E faccio fatica anche a rintracciare ‘omologhi italiani’ di liberali e verdi tedeschi. Il punto, credo sia un altro: sono 25 anni – dalla fine della prima repubblica – che proviamo tutte le combinazioni possibili dei due modelli (il francese e il tedesco) che funzionano davvero. Prima abbiamo fatto il maggioritario ma con un po’ di proporzionale…. poi il proporzionale con un po’ di maggioritario, in varie versioni. Secondo me questo paese deve scegliere cosa fare da grande, e lo può fare solo andando con decisione su uno dei due: o il doppio turno alla francese, o il proporzionale alla tedesca. Senza commistioni e annacquamenti. Sono due modelli diversi, ma entrambi darebbero stabilità all’offerta politica e al funzionamento delle istituzioni: nel caso francese, perché chi vince al ballottaggio governa (ma allora servono le garanzie per l’opposizione, tipica dei sistemi maggioritari); nel caso tedesco, un proporzionale determina alleanze post-voto, quindi i partiti predisporrebbero la propria offerta politica (e la campagna elettorale) con maggiore chiarezza e sapendo che con qualcuno bisognerà allearsi. Non sprechiamo, per l’ennesima volta, l’opportunità di completare la transizione italiana, che da troppo tempo va avanti e impedisce a chi si insedia a Palazzo Chigi di avere la ragionevole aspettativa di governare 5 anni”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.