Un confronto televisivo tra il candidato del centrodestra in Piemonte, Alberto Cirio, e Sergio Chiamparino del centrosinistra (Foto LaPresse)

“Sono leghisti, non fascisti. Quei consensi vanno recuperati”, ci dice il capogruppo del Pd a Torino

David Allegranti

"Quelli della Lega sono voti nostri come lo erano i 5 stelle. Il Chiappendino? Non ho condiviso alcune scelte fatte”. Parla Stefano Lo Russo

Roma. “Dire che i leghisti sono tutti dei fascisti è una narrazione strategicamente pericolosa”, spiega al Foglio Stefano Lo Russo, capogruppo del Pd a Torino. “Quando un partito prende così tanti voti è sbagliato classificare quelli che l’hanno sostenuto come fascisti o razzisti. È un errore che la sinistra fa ciclicamente; lo ha commesso sbeffeggiando i Cinque stelle prima e lo ripete adesso etichettando tutto l’elettorato della Lega. La strategia può pagare al massimo nel breve periodo, anche se non è detto, e nel medio lungo rischia di escludere un elettorato che si sente offeso in certi giudizi netti e anche talvolta supponenti”. Questo, dice Lo Russo, “non significa deflettere rispetto a determinati valori”.  

  

“Così comenon vuol dire non rilevare il pericolo di autoritarismo populista che il paese vive”, aggiunge Lo Russo. La questione, semmai,è un’altra, sottolinea il capogruppo del Pd di Torino: “Le elezioni le abbiamo perse e dobbiamo rivedere le risposte che come partitodiamo per essere noi a occupare lo spazio politico e sociale che adesso viene occupato dai nostri antagonisti; ora è la Lega ma fino a poco tempo fa erano i Cinque stelle”. La Lega, dice Lo Russo, “vince nei settori periferici e nelle aree più in difficoltà che un tempo si erano rivolti al M5s ma che oggi si sentono traditi dal partito di Di Maio. Ma la Lega stravince anche nella provincia produttiva italiana. Tra gli artigiani, i piccoli imprenditori e i lavoratori di quelle aziende che stanno in zone che non sono periferie disagiate”.

  

 Stefano Lo Russo, capogruppo del Pd a Torino (Foto LaPresse)


 

Il Piemonte da questo punto di vista è un buon punto di osservazione. “Alle europee a Novara la Lega è al 40 per cento. In provincia di Biella al 42, a Cuneo al 44. E non stiamo parlando di aree disagiate”. Ora, aggiunge Lo Russo, “il problema per il Pd è che dobbiamo dare una chiave interpretativa per contrastare la conquista di voti da parte della Lega in quei ceti produttivi e per recuperare voti nelle zone periferiche urbane di Torino, Milano e Roma. Dobbiamo formulare delle proposte senza ovviamente snaturarci, fornendo alternative culturali, politiche e programmatiche”.

 

Per esempio, “c’è un tema grande come una casa che riguarda la pressione fiscale su imprese e famiglie. Per i ceti medi produttivi è diventata una questione insostenibile. Gli stipendi medi sono troppo bassi perché c’è un carico fiscale esagerato. Il costo del lavoro e la pressione fiscale sul lavoratore dipendente sono fuori da ogni tipo di logica”. Un’altra questione riguarda il sì alle grandi opere e la necessità di “fare debito virtuoso per opere pubbliche a vantaggio dell’economia reale”. Senza dimenticare la questione della sicurezza. “Nelle periferie non dobbiamo far sentire i cittadini abbandonati, dobbiamo raccogliere il senso positivo della domanda di sicurezza, facendola diventare una parola cardine della nostra azione di governo e non lasciandola alla destra. La mancata sicurezza è esattamente quello che vivono i ceti popolari disagiati; derubricare tutto a incapacità di leggere i fatti della globalizzazione o alla deriva populista è una nostra allucinazione, un abbaglio. I problemi lì esistono e dobbiamo metterci in ascolto, anche con prossimità fisica. Andando di persona nei luoghi dove non siamo più andati”.

 

C’è un altro abbaglio per il Pd: l’alleanza o l’interlocuzione con i Cinque stelle. In Piemonte qualcuno ci ha provato e non è andata bene: “I Cinque stelle sono una creatura politica creata in uno spazio che è stato lasciato dalla sinistra. Riconquistare quello spazio non significa appaltarlo ai Cinque stelle in termini di rappresentanza. Dobbiamo tornare ad avere l’ambizione politica di essere noi a rappresentare quegli interessi, noi a trasformare l’esigenza di giustizia sociale per il paese, senza abdicare alla missione storica del centrosinistra appaltando i nostri spazi e le nostre tematiche a un movimento che di sinistra non ha proprio nulla”. Senta Lo Russo, ma queste elezioni non sono anche la sconfitta del Chiappendino? “Non sempre ho condiviso alcune scelte fatte in questi anni. C’è una parte del Pd che teorizza un modello di un’alleanza, anche politica, con il M5s che non condivido. Questa parte probabilmente ritiene di non essere più in grado di rappresentare le istanze dei ceti popolari e anziché preoccuparsi di cambiare contenuti e narrazione valuta più produttivo nel breve periodo un’alleanza politica con chi è ritenuto più in grado di rappresentare questi segmenti di società. Questo lo ritengo un errore di prospettiva, perché nel lungo periodo rischia di snaturare l’essenza stessa del centrosinistra riformista”. Ma qual è l’identità del Pd oggi? Il Pd è quello di Carlo Calenda o quello di Pietro Bartolo? “Il Pd è nato per essere un elastico che tiene insieme pezzi di società che sono lontani anni luce gli uni dagli altri. Quella è la prospettiva”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.