Matteo Salvini (foto LaPresse)

I nuovi rapporti di forza del governo illuminano la partita win-win di Salvini

Raddrizzare l'esecutivo, poi tentare la strada per Chigi. Autonomie, tav, giustizia, flat tax. L’agenda della rottura non è solo fiction

Roma. Camicia bianca, maniche arrotolate, i jeans non proprio quelli strappati ma quasi, e poi la cravatta verde con il nodo grosso. La divisa della vittoria, al Viminale, per Matteo Salvini non è più quella della polizia. E dato che l’uomo non lascia nulla al caso, anche se sembra, dato che ogni spicciolo atto del suo stare sulla scena è oggetto di studio millimetrico, si capisce che anche questa scelta estetica contiene un messaggio. Questo: “Sono assolutamente tranquillo”, dice. “Rimango con i piedi per terra. C’è chi dopo aver vinto ha perso la testa. Io no”, aggiunge, riferendosi a Matteo Renzi, all’ex trionfatore delle Europee 2014, l’uomo del 40 per cento la cui fotografia Giancarlo Giorgetti gli aveva piazzato sul comodino, undici mesi fa, dopo la formazione del governo gialloverde. Un promemoria. Affinché la tracotanza non sbocci assieme alla fortuna. E certo le cose sono più facili per Salvini, che per Di Maio, adesso, ma il segretario della Lega sta mettendo a punto una strategia nei confronti del suo alleato. 

 

 

“Piedi per terra”, dice dunque Matteo Salvini. Ma ben piantati, per contare e far contare il 34 per cento raccolto alle europee, “bisogna rispettare quei voti”, dice infatti il vicepresidente del Consiglio in un discorso pieno di certezze e indicazioni quasi da capo di governo rivolte al Movimento 5 stelle. Parole e prescrizioni pur modulate nel tono di una didattica e persino fraterna condiscendenza, e pazienza. Salvini comanda, ma non vuol apparire un caporale. Forse minaccia, ma manda contemporaneamente dei metaforici bacioni a Di Maio. “Gli italiani hanno dato un mandato chiaro: andate e fate”, ripete allora, a proposito di tutti quegli argomenti che negli ultimi mesi hanno composto il collier dei piccoli litigi con Di Maio, con Danilo Toninelli, con Elisabetta Trenta, e il cosmo grillino. Tutti quei dossier ritenuti fin qui “sensibili”, cioè pericolosi, dunque in gran parte accantonati per evitare che il clima già litigarello degli ultimi mesi si potesse trasformare a ridosso delle elezioni in una rissa non più funzionale e recitata ma vera e perniciosa per la tenuta dell’esecutivo.

 

E allora ecco la Tav Torino-Lione, che fa di nuovo, e adesso con forza, capolino nei discorsi di Salvini. “Il voto in Piemonte ha un senso chiarissimo”, spiega allora il capo della Lega, mentre al Viminale scorrono i risultati clamorosi che segnano la sconfitta di Sergio Chiamparino, del Pd, e l’arretramento anche del Movimento 5 stelle dalla sua regione roccaforte, con il capoluogo Torino, governato dalla ammaccatissima Chiara Appendino. Ma non solo la Tav. La lista dei punti sui quali evidentemente adesso la Lega intende insistere è lunga, oltre che nota. Ci sono anche le autonomie, ovvero il progetto portato faticosamente avanti dal ministro Erika Stefani, la bandiera ideologica della Lega nativista di Luca Zaia e di Attilio Fontana, i presidenti del Veneto e della Lombardia. “L’autonomia non spaventa più”, insiste adesso Salvini, con ritrovata sicurezza, lui che pure per alcuni mesi aveva rallentato, traccheggiato persino, assecondato le tante perplessità dei suoi alleati grillini. Mentre adesso dice: “E’ il futuro”. E infine la flat-tax, il vessillo elettorale, il manifesto della Lega nordista e produttivista che – visti i risultati di domenica notte – non ha certo perso voti nel nord Italia, ma che pure sa bene di aver ipotecato le simpatie “dell’Italia che lavora” proprio con la promessa di “meno tasse ai cittadini e alle imprese”. Non è un aspetto certo secondario che ieri pomeriggio, quando ai ministri della Lega si chiedeva di Armando Siri, il sottosegretario cui Giuseppe Conte aveva tolto le deleghe, loro rispondessero così: “Sta lavorando alla flat tax”. Rinnovata e ritrovata sicurezza, dunque. E forse anche un’allusione spavalda alla situazione giudiziaria di un altro importante sottosegretario della Lega, Edoardo Rixi, che presto potrebbe trovarsi in una situazione del tutto simile a quella di Siri. Andando però incontro, stavolta – sembrano suggerire i leghisti – a un esito affatto diverso. Ma chissà.

 

E adesso cosa succede? Come andrà a finire la vicenda del governo? Intorno a Salvini circolano due correnti di pensiero che l’abile spin di partito diffonde e fa arrivare alle orecchie dei cronisti. Due teorie in realtà complementari. La prima sostiene che la lunga lista delle priorità, fin qui descritta, sia di per sé una buona ragione per andare avanti con il governo. E che insomma i nuovi, e ribaltati, rapporti di forza con il M5s adesso consentiranno anche di raddrizzare l’azione di governo. Ottenendo risultati in materia economica. Ma c’è poi la seconda corrente di pensiero. Quella che da tempo viene ricondotta a Giancarlo Giorgetti. Bisogna rompere. Andare a votare. Portare Salvini a Palazzo Chigi, ma non da vicepremier, da presidente del Consiglio. Ipotesi che non contrasta in realtà con la strategia numero uno. E insomma al primo ostacolo, alla prima alzata di scudi su Tav, autonomie, giustizia o flat tax, “stacchiamo la spina”. Minaccia o vera strategia? C’è poco altro come le elezioni anticipate che Di Maio e i suoi committenti temono in questo momento.