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Conte pretende le dimissioni di Siri e Salvini cede alla gogna grillina

Valerio Valentini

Pomeriggio folle a Palazzo Chigi, poi l’annuncio del premier. Così la Lega si allinea alla foga manettara di Di Maio, che esulta

Roma. In fondo c’è un che di estremamente coerente, nel fatto che le dimissioni più pazze del mondo si concretizzino, di fatto, in un pomeriggio di scombiccherata follia gialloverde. Succede infatti che, quando mancano pochi minuti alle sei di sera, lo staff di Giuseppe Conte annuncia una conferenza stampa: appuntamento alle 18:30. Evento non previsto, sulle cui cause, nel quartier generale del Carroccio, subito ci si interroga. “Vedrete che il premier annuncia le dimissioni di Armando”, realizzano presto i leghisti. E allora, immediata, la contromossa. Che arriva una manciata di minuti prima dell’orario fatidico, e che ha gli stessi toni surreali che hanno caratterizzato l’intera vicenda di cui Siri è stato, e resta, protagonista riluttante. “Dal primo momento ho detto di voler essere immediatamente ascoltato dai magistrati per chiarire la mia posizione”, dichiara il sottosegretario ai Trasporti indagato per corruzione. “La disponibilità dei magistrati a essere ascoltato c’è e confido di poterlo fare a brevissimo. Confido che una volta sentito dai magistrati la mia posizione possa essere archiviata in tempi brevi”, aggiunge. Poi, la nota di dadaismo: “Qualora ciò non dovesse accadere, entro 15 giorni, sarò il primo a voler fare un passo indietro, rimettendo il mio mandato, non perché colpevole, bensì per profondo rispetto del ruolo che ricopro”.

    

Una prospettiva che disorienta i comunicatori del M5s. E allora la conferenza stampa di Conte viene posticipata di oltre mezz’ora, il tempo necessario per rivedere il copione che il premier dovrà poi recitare davanti ai cronisti. “Le dimissioni o si danno o non si danno”, scandisce poi l’avvocato del popolo, che per una volta si ritrova – dopo esserne stato spesso il promotore, come nel caso della Tav – a respingere un compromesso da Azzeccagarbugli. Pare assurda anche a lui, la soluzione additata da Siri, col quale, pure, Conte si era lungamente confrontato, in un incontro durato due ore, lunedì sera. “Dimissioni future, che vengono ricollegate a iniziative dei giudici, non credo abbiano molto senso”. E dunque, categorica, la decisione del premier: “Porrò all’ordine del giorno del prossimo Cdm, assumendomene tutta la responsabilità politica, la mia proposta di revoca di nomina a sottosegretario Siri”.

    

“E’ sempre più il capo dei 5 stelle”, commenta, immediato, un uomo di governo della Lega. Che però, come tutti gli altri esponenti del Carroccio, riceve immediatamente la commessa del silenzio. Parla solo Matteo Salvini, e lo fa da Budapest, dove è andato a riverire Viktor Orbán. “Lascio a Conte e Siri le loro scelte, a ma ve bene qualsiasi cosa se me la spiegano”. E’ il segnale della capitolazione: la resa del ministro dell’Interno all’intransigenza giustizialista del M5s. Salvini ci prova, a ostentare la sua insofferenza: “In un paese civile non funziona così”, sbuffa. E però questo paese incivile di cui si dichiara quasi prigioniero politico è proprio quello che lui governa da quasi un anno: e da quasi un anno restando succube della foga manettara del M5s.

   

Che Siri alla fine si sarebbe dovuto dimettere, i leghisti lo avevano messo in conto. E non solo Giancarlo Giorgetti, che di Siri non s’è mai mostrato un grosso estimatore e che pure aveva tentato – senza troppa convinzione – una difesa d’ufficio di Siri in extremis, mercoledì. Anche Salvini aveva spiegato ai più intransigenti dei suoi che no, non avrebbe concesso a Di Maio il lusso di passare l’intera campagna elettorale per le europee a fare la parte dell’onesto, del puro con le mani pulite. E infatti la soluzione partorita era un non sense: imporre a Siri, che da giorni ormai si teneva lontano da Roma e dal Mit, di dimettersi nel caso in cui non ci fosse stata una immediata archiviazione. “Che equivaleva a pretendere le dimissioni proprio come le pretendevamo noi”, se la ridono i fedelissimi di Di Maio. Il quale, ovviamente, gongola. Ma rilancia col tono conciliante di chi quasi non vuole infierire: “Voglio fare un appello a Salvini una volta superato il caso Siri: vediamoci, parliamoci e lavoriamo il più possibile per gli italiani”. D’altronde, al bluff della crisi i Cinque stelle non credono più: “Salvini non romperà, né ora né poi”, ripetono da giorni. E così alzano il tiro, sempre di più. “Ma domani sarà un manicomio”, giura, a sera, un leghista di governo. E però la minaccia suona già vuota, nella quiete immota del Transatlantico deserto.