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Su Siri persino Salvini corre dei rischi

Valerio Valentini

Indagine sui primi segnali di allarme che rivelano le debolezze del leader leghista nel rapporto con i 5 stelle

Roma. “Ma il punto non è che Salvini ha ceduto al giustizialismo”, dice Roberto Castelli. “Noi della Lega, del resto, eravamo quelli del cappio sventolato in Parlamento”, ricorda l’ex ministro della Giustizia, colonnello a riposo del Carroccio che fu. “Il punto, semmai, è che i grillini hanno messo Matteo con le spalle al muro. Erano in picchiata nei sondaggi, e hanno trovato in Siri il punto debole della Lega. Per questo Salvini ora è in imbarazzo: se difendesse il suo sottosegretario, darebbe modo al M5s di proseguire con la sua propaganda manettara; ma anche se cedesse, sacrificando Siri come a volte negli scacchi si sacrifica il pedone per salvare il re, ammetterebbe, implicitamente che qualcosa di losco, in questa vicenda, c’è”. E dunque? “E dunque niente. E’ la politica, bellezza. Ogni tanto bisogna abbozzare”.

 

Ma abbozzare fino a che punto? Fino a che punto, cioè, un leader che ambisce a diventare presidente del Consiglio può rinunciare a princìpi apparentemente non negoziabili, in uno stato di diritto? “Ma Salvini non ha né la struttura politica né la cultura necessaria per andare a Palazzo Chigi. Così come non ce l’ha Luigi Di Maio”, dice Emanuele Macaluso, novantacinque anni di militanza a sinistra e una passione intatta per le cose della politica. “Salvini sa che la Lega ha una base strutturata, storica, al nord: una porzione magari minoritaria di quello straordinario consenso che oggi riscuote, ma l’unica davvero stabile, l’unica che non può permettersi di tradire in nome di questo governo. Se scalfisce quella nell’ansia di rincorrere il M5s – osserva Macaluso – il Carroccio deraglierebbe. E’ già successo con Matteo Renzi, sul fronte opposto: se ti allontani dal tuo popolo, se dileggi il tuo sindacato e non riesci a parlare innanzitutto alla tua gente, ti condanni a un trionfo di breve durata”. E però è proprio parlando a nome di quel padanismo delle origini, duro e puro, che Castelli assolve Salvini: “Se sei in un governo con la metà dei voti del tuo alleato – dice – devi accettare dei compromessi, spesso anche al ribasso. Ma al di là di tutto, la politica è questione di realismo: e questo, parafrasando Churchill, è il peggior governo possibile, eccezion fatta per tutti quelli che potrebbero subentrargli”.

 

E dunque tutto si dissolve, ogni dibattito scade in polemica, in baruffa elettorale, ogni forzatura allo stato di diritto, e magari alla decenza, liquidato con un’alzata di spalle. “E’ tutto dettato dal senso olfattivo: capire come soffia il vento, e adeguarsi. E’ tutto opportunismo di giornata”, scuote la testa Giuliano Urbani, che di Castelli è stato collega nel governo per cinque anni, tra il 2001 e il 2005. Non ci sta Urbani, vecchio liberale di scuola bobbiana e due volte ministro con Berlusconi, a giudicare con sufficienza le stramberie grilloleghiste. “Il problema è che questi leader, transeunti ed evanescenti per loro stessa natura, rischiano di creare danni permanenti in nome di un consenso effimero, da consumare in pochi mesi. Penso all’economia, certo, ma anche, proprio, al tema della giustizia”. Un esempio? “Prendete la sospensione della prescrizione”, riflette Urbani. “Salvini l’ha accettata dicendo che però, prima dell’entrata in vigore della legge voluta da Bonafede, si sarebbe modificato il processo penale. Finirà che questa riforma non ci sarà, e dall’anno prossimo avremo perso un istituto sacrosanto com’è quello della prescrizione”.

 

Un gioco pericoloso, “che però non spaventa chi sa che il suo momento è ora, la sua stagione breve, e dunque deve incassare tutto e subito, costi quel che costi”, dice Macaluso. “La Lega è passata dal 17 al 33 per cento in pochi mesi. Al sud, questo exploit lo si deve al trasformismo italico nella sua versione più deteriore: reduci di altri partiti in disarmo che si aggrappano al vincente di turno, il quale accetta tutto per sfamare la sua bulimia di consenso”. Non può durare, dunque? “Come non è durato Renzi. Anzi, proprio della crisi della sinistra provocata dai danni del renzismo, un cambiamento scenografico ed inconsistente pure quello, è nata questa stagione gialloverde. Non a caso Giancarlo Giorgetti, l’unico nel governo dotato di una certa cultura, ama ricordare ai leghisti le sorti infelici del giglio magico. E’ per esorcizzare un rischio che percepisce come reale. Quella di Salvini è una leadership di transizione, di questa fase di sbandamento generale. Si liquefarà, semplicemente. Ma nel frattempo non è escluso che non produca danni”.

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