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L'illusione del decreto crescita

Valerio Valentini

Di Maio s’aggrappa a un provvedimento vuoto per dare contenuto a un Def truccato. Lo scontro tra Mef e Mise, e Tria muto

Roma. Il bluff è talmente sfacciato che neppure fingono di crederci, nelle parole del capo. “Eh, vabbè, che vuoi che dica?”, si stringono nelle spalle i grillini più vicini a Luigi Di Maio, che dal canto suo insiste nel parlare del decreto crescita come di una mirabilia che arriverà a risollevare l’economia disastrata del paese. “Inseriremo nel Def gli effetti della legge”, annuncia entusiasta il vicepremier grillino a Repubblica. Ed è un ottimismo della volontà che stride con lo scetticismo che invece si vede comparire sui volti dei leghisti quando si accenna al dossier, oltre che con lo sfinimento delle strutture tecniche del Mise e del Mef che da giorni continuano a litigare sui dettagli del decreto, sapendo comunque che si tratta di ben poca cosa per tentare di fronteggiare la recessione in atto. 

   

Doveva arrivare ieri a Palazzo Chigi, il decreto crescita. E invece sul tavolo del Consiglio dei ministri ci finirà, se tutto va bene, lunedì. Altri due o tre giorni di travaglio per partorire un aborto, con l’unico fondo a disposizione che verrà dai 2 miliardi di mini-Ires, bocciata dopo appena due mesi di sperimentazione, che dovranno essere riallocati. I tecnici di Via Veneto avevano pensato a un taglio dell’Irap, per dare un segnale d’incoraggiamento alle imprese. Si è scelta invece un’altra strada: quella, cioè, di disperdere quel “tesoretto” in molti rivoli (dalle modifiche alla Nuova Sabatini agli incentivi per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese, passando per un ripristino, non ancora certo, del superammortamento), rendendo di fatto nullo l’effetto della misura.

    

“L’idea iniziale era quella di mettere dei cerotti”, spiegano a Via XX Settembre. Correggere, insomma, alcune storture inserite nella legge di Bilancio su cui si erano innescate le proteste di imprese e investitori. Però, arrivato a Via Veneto, il testo del decreto è stato cambiato, rivisto, è finito al centro di una contrattazione tra due ministeri – peraltro privi dei rispettivi titolari, con Di Maio negli Stati Uniti e Giovanni Tria a Pechino, con l’uno che lancia all’altro minacce e ultimatum via giornali, e l’altro eclissatosi dietro un mutismo indecifrabile per i suoi stessi partner di governo – che si è risolta in un continuo stravolgimento del testo: e così dai 60 articoli contenuti nella bozza di mercoledì si è passati ai 35 di ieri, senza che i due nodi su cui permane tuttora un forte contrasto tra Mise e Mef, ovvero la riforma della normativa dei piani individuali di risparmio (Pir) e l’innalzamento della soglia massima del fondo di garanzia per le medie e grandi imprese, venissero risolti. “Non abbiamo ancora emanato i decreti attuativi sui Pir, come fanno a dirci già che non funzionano?”, si lamentano al Mise i collaboratori di Di Maio all’indirizzo dei consiglieri di Tria. “La verità è che stanno cedendo alle pressioni delle lobby; e anche sul fondo di garanzia ci pressano perché, a loro volta, sono pressati da Confindustria che vuole agevolare le grandi imprese”. Ed è insomma in questo clima di sospetti e di capricci, nell’entropia inconcludente dei dialoghi concitati, che ci si affanna a trovare delle alternative a una manovra correttiva che, a microfoni spenti, sono in tanti a considerare ancora inevitabile. D’altronde neppure quell’altro espediente mediatico dello sblocca cantieri sembra doversi risolvere in nulla. Era stato licenziato dal Cdm il 20 marzo “salvo intese”: e le intese, al momento, non ci sono. I leghisti, anzi, ne hanno preso definitivamente le distanze, quasi volendo abbandonare il provvedimento nelle mani dei grillini, per non doverne poi giustificare l’insussistenza.

  

Il tutto con la consapevolezza che sia Giancarlo Giorgetti sia Di Maio hanno maturato nei loro viaggi a Washington: e cioè che l’ombrello americano sul debito resterà aperto solo fino a giugno. Poi si tornerà a tremare.