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Orlando ci spiega perché al Pd non servono né il M5s né D'Alema

David Allegranti

L’ex ministro della Giustizia dopo le primarie: “Dobbiamo rappresentare il campo largo contro il governo”

Roma. Dice Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, che “il dato della partecipazione alle primarie non va assolutamente derubricato. Facciamo gli stessi numeri del 2017, quando c’era un partito al governo che governava molte realtà che nel frattempo abbiamo perso, un partito che era dato nei sondaggi 7/8 punti sopra il voto del 4 marzo. C’è dunque una domanda di reazione a questo governo da parte di tante persone che vanno a votare alle primarie con lo stesso spirito con cui sono scese in piazza a San Giovanni o a Milano sabato scorso: se viene offerta loro un’occasione, la usano. E’ un sentimento di reazione contro il governo ma anche un investimento di responsabilità molto importante”. Il voto di domenica nei  gazebo, sottolinea Orlando, “non è un’adesione fideistica, non ci dicono ‘fate quel che volete’, ma esorta a una ripresa dell’iniziativa politica. Contemporaneamente, c’è stata la richiesta di un cambiamento nel Pd. Quindi, la condizione assoluta è l’unità, che è essenziale, ma non può essere una unità statica. Non può essere un accordo tra gruppi dirigenti, non è una tregua, ma deve essere uno sforzo comune per rispondere alla domanda che è venuta fuori in queste settimane”. La domanda, facciamo notare a Orlando, l’hanno posta associazioni, persone che stanno fuori dai partiti, sindacati, associazioni di categoria. I partiti hanno qualche difficoltà a dare una risposta, a iniziare dal Pd? “I partiti devono avere consapevolezza dei propri attuali limiti. La catastrofe del 2018 e la crisi organica che il Pd ha avuto non si recupera solo con il voto delle primarie. Il tema è questo: c’è un campo che si è allargato in questi mesi di reazione al governo, dovuto alla sua salvinizzazione. Il Pd adesso deve rendersi utile e dare rappresentanza a questo campo. Il nostro lavoro è interpretare correttamente la domanda di uguaglianza. Il Pd può svolgere un suo lavoro specifico, che faccia i conti con un modo totalmente nuovo di porre temi antichi da parte di soggetti che tradizionalmente non li vivevano. La domanda di uguaglianza oggi arriva dai professionisti, dalle imprese, non più solo dalla classe operaia. E’ una domanda che nasce dalla distruzione di ricchezza dovuta alla finanziarizzazione dell’economia; il commercio è stato devastato dalla rete, ci sono professionisti che rischiano di andare sotto la soglia di povertà, le imprese sono schiacciate da una parte dalla stretta creditizia e la burocrazia e dall’altra dalla competizione internazionale senza regole. Sono tutti elementi che ci dicono che la domanda di eguaglianza arriva da referenti in parte nuovi – non mancano naturalmente anche quelli tradizionali – e in un modo nuovo”. C’è poi una questione che non riguarda il Pd in senso stretto ma riguarda appunto il “campo largo” del centrosinistra e dunque gli alleati del Pd. “Prima di tutto l’alleanza deve rappresentare il campo che è contro questo governo. La salvinizzazione dell’esecutivo libera pezzi di mondo moderato che pensavano, sbagliando, che Berlusconi potesse arginare Salvini. Ma libera anche un mondo più radicale che ha dato il voto ai Cinque stelle. Si usa molto l’accezione ‘civico’, ma che cosa è il civismo in questo momento? E’ un pezzo di società che non vuole stare con loro ma non si fida ancora di te. Con questi mondi noi dobbiamo costruire ponti. Quindi serve un’alleanza che sia funzionale al campo che si sta creando, con un centro fatto dal Pd che può essere utile fino in fondo se ritrova un rapporto organico con il suo popolo”.

 

C’è un tema grosso come una casa, diciamo ancora a Orlando, che riguarda il futuro rapporto con i Cinque stelle. Come affrontarlo? “Fra noi e i Cinque stelle c’è un canale elettorale fluido in uscita ma anche, come dimostrano le Regionali in Abruzzo e in Sardegna, in entrata. Ora, questi voti andati ai Cinque stelle non è che si recuperano con manovre o tattiche di Palazzo. La cosa migliore è interpretare correttamente, facendo il nostro mestiere, i temi che i Cinque stelle hanno manipolato. La giustizia e l’eguaglianza sociale, la sostenibilità e la questione della riforma della democrazia. Noi adesso dobbiamo muoverci in contropiede, uscire dalla difesa dell’establishment e proporre un cambiamento alternativo nel segno dell’equità, evidenziando così l’inadeguatezza delle proposte dei Cinque stelle. Non esiste un tema di interlocuzione con loro, ma di interpretazione dei temi che hanno strumentalizzato. Dobbiamo raccogliere lo sfarinamento dei Cinque stelle, che è frutto della subalternità di Di Maio a Salvini. Paradossalmente, aprire una interlocuzione adesso con i Cinque stelle, darebbe una forza contrattuale che Di Maio oggi ha perduto. Un conto sarebbe stato l’inizio della partita, ma ormai la partita è già arrivata alla fine del primo tempo”.

 

Il Pd cosa deve fare alle Europee? “Dobbiamo promuovere la massima apertura sia nella società civile sia tra i soggetti politici. Si tratta di fare un redde rationem tra le forze progressiste europeiste che siano disponibili ad aderire a questo progetto. Se queste forze non ci sono, come pare, si tratta comunque di promuovere un’apertura. Vedo  che Zingaretti dice di aprire le liste. E’ giusto, dobbiamo dare rappresentanza al nuovo centrosinistra, che è quello di oggi non di quello di tre o quattro anni fa. Dovremmo anche mettere mano alla nostra forma partito, che non è più adeguata, come si vede dalla discrepanza fra i risultati nei circoli e i risultati nei  gazebo”. A proposito del centrosinistra di tre o quattro anni fa, il Pd è pronto a far tornare qualche vecchio compagno di viaggio? “Il fatto che questa questione, che ha caratterizzato la discussione del congresso, vada ancora avanti, testimonia  il distacco fra i gruppi dirigenti – sconfitti da entrambe le parti – e il popolo del centrosinistra, che oggi chiede una nuova rappresentanza. La questione è l’asse politico che noi promuoviamo. Il tema non è il ritorno dei singoli dirigenti. Chi usa questo argomento insiste su una rendita che non esiste più e non considera che la fotografia del centrosinistra è cambiata. Noi non dobbiamo rimettere i cocci di quello che era il Pd tre-quattro anni fa, dobbiamo rappresentare quel centrosinistra che si sta costruendo oggi. Quindi non si tratta di dare interdizioni né lasciapassare a nessuno, ma di fare una seria ricognizione nel mondo che rappresenta una reazione al governo e ai sovranisti. Serve una fase costituente e un profondo rinnovamento, anche culturale, della classe dirigente”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.