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Il piano B di Salvini sono le elezioni e per il colle non sono tabù

Valerio Valentini

Al ministro l’idea di tornare al tavolo col Cav. non piace, il ribaltone non lo convince. Strade e opzioni, con dubbio quirinalizio

Roma. L’esito dell’analisi, in fondo, è sempre quello, e sempre ugualmente inconcludente: “E poi? E poi ci penserà Mattarella”. Chi ha raccolto le riflessioni di Matteo Salvini, in questi giorni, racconta di discorsi e ragionamenti che, da dovunque partissero e comunque si sviluppassero, alla fine s’arenavano sempre nell’imperscrutabilità dei voleri del capo dello stato. Come se poi, di fronte a possibili crisi di governo, al Quirinale ci si potesse appellare ad altro se non alla testarda, per quanto mutevole, “forza dei numeri”.

 

E dunque, quando si dovesse arrivare alla resa dei conti all’indomani delle europee, nel caos che quasi inevitabilmente scaturirà dal ribaltamento dei rapporti di forza tra Lega e M5s, Sergio Mattarella non potrà che tenere, come unica bussola per cercare la nuova rotta, “il pallottoliere”. Scelta non troppo estrosa, forse, come del resto è bene che non siano quelle di chi deve rispettare un dettato costituzionale preciso, e una prassi ormai consolidata, che non ammettono grandi alzate d’ingegno. Considerazioni a loro modo perfino scontate, ma che di certo, nelle prossime settimane, dovranno essere richiamate alla memoria di chi, dalle parti del Viminale, sempre più spesso dà per scontata la riluttanza del presidente della Repubblica allo scioglimento anticipato delle camere. Una convinzione che non ha, finora, trovato alcun riscontro da fonti quirinalizie, e che pare più che altro funzionale alla ricerca preventiva di un facile alibi da parte degli uomini più vicini a Salvini. Alcuni dei quali, del resto, non si sforzano neppure di nascondere il proposito recondito del loro “capitano”: quello, cioè, di “lasciare il cerino in mano a Mattarella” all’indomani del voto, col desiderio, magari, di vedersi negata la via a un voto anticipato invocato senza neppure troppa convinzione per poi potere chiamare la piazza.

 

E forse è anche per questo che, di fronte alle molte speculazioni sul destino della legislatura del cambiamento, al Colle restino fermi nel ricordare che lo scioglimento anticipato delle camere non è affatto un tabù: ma può essere deciso dal capo dello stato solo dopo che questi ha “sentito” i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama. Una osservazione che è un richiamo alla responsabilità per tutti. E specie per Salvini: se, all’indomani del 26 maggio, il capo della Lega volesse passare all’incasso, non avrebbe che da chiedere formalmente il ritorno alle urne. A quel punto, difficilmente Forza Italia, da cui ogni giorno si rinnovano gli inviti verso il figliol prodigo a tornare “nella casa del centrodestra”, potrebbe opporsi. L’unica maggioranza alternativa possibile, allora, sarebbe quella tra Pd e M5s: un’ipotesi che però, col passare dei giorni, perde continuamente consistenza.

 

E insomma, se alla fine, dopo il voto delle europee, dovesse vincere la legge della palude parlamentare, non sarà certo perché al Quirinale impediranno il ritorno al voto. Ma, di nuovo, allora toccherà a Salvini intestarsi la paternità del ribaltone, guidare le manovre più o meno occulte per creare una maggioranza intorno alla Lega diversa da quella gialloverde. Il centrodestra classico con l’aggiunta di qualche decina di nuovi innesti? Al ministro dell’Interno l’idea di tornare al tavolo con Silvio Berlusconi e i suoi vari colonnelli non piace affatto. Resta allora l’ipotesi dello “scomporre per ricomporre”: fare in modo, cioè, che Di Maio si liberi delle frange più barricadere vicine a Fico, e accetti una coabitazione al governo, nel ruolo di socio di minoranza, insieme a un terzo polo sovranista guidato da Giorgia Meloni e Giovanni Toti, più i transfughi di Forza Italia (un qualcosa su cui, anche nel voto alla mozione proposta da FdI ieri alla Camera contro il Global compact, in Parlamento si cominciano a fare prove tecniche). Soluzione che presenterebbe tutti i rischi dell’accozzaglia, ma che pure, se avesse la “forza dei numeri” sia alla Camera sia al Senato, non verrebbe certo osteggiata dal Colle. Resterebbe a quel punto da trovare un premier. Ai piani alti del M5s, c’è chi dice – chissà se più con stima o con disprezzo – che Giuseppe Conte “è uomo buono per tutte le stagioni”. In casa Lega, invece, confidano che Giancarlo Giorgetti, per quanto non entusiasta dell’ipotesi, ultimamente si stia lasciando accarezzare dall’idea di prendere le redini del governo. Solo, però, se a imporglielo fosse “il suo segretario”. Ed ecco allora che, come che lo si guardi e ce lo si immagini, l’indomani del 26 maggio non potrà che metterlo in mano a Salvini, il cerino che Salvini vorrebbe lasciare nelle mani di Mattarella.