Christian Solinas, neogovernatore della Sardegna, con Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Vaccini contro l'espansione populista

Claudio Cerasa

Il flop del M5s in Sardegna, dopo quello in Abruzzo. Il centrodestra che vince solo se unito. Il ritorno del bipolarismo. Il Pd che non trae beneficio da leader spostati a sinistra. La resipiscenza è una buona notizia ma a Salvini ora tocca fare una scelta

Per chi non considera l’ascesa del populismo una buona notizia, le buone notizie di questi tempi scarseggiano, e così, chi è sempre in cerca di buone notizie come siamo noi, deve spesso accontentarsi anche di molto poco. Deve accontentarsi di guardare alle elezioni della Sardegna e rallegrarsi per la saggezza dei sardi che dopo aver dato appena un anno fa alle politiche una fiducia galattica al Movimento 5 stelle, 42,5 per cento, hanno deciso di mollare nel giro di poche settimane due ceffoni politici mica male ai clown grillini: prima facendo vincere con il 40,6 per cento il centrosinistra a Cagliari alle elezioni suppletive, e strappando un seggio alla Camera al grillismo, e facendo poi perdere al Movimento la bellezza di ventinove punti alle regionali, quelle di domenica scorsa.

 

Per essere di buon umore dopo il voto in Sardegna, ci si potrebbe accontentare di questo e si potrebbe dire che, da un anno a questa parte, in tutte le elezioni successive a quelle disputate il 4 marzo, tranne le regionali del Molise dove il M5s è arrivato secondo, non c’è stata una sola occasione in cui gli elettori non abbiano dimostrato in giro per l’Italia che il bipolarismo italiano non è monopolizzato dai due populismi ma da uno scontro politico al centro del quale ci sono ancora le vecchie coalizioni di centrodestra e centrosinistra. E’ andata così in Sardegna, dove il centrodestra ha battuto il centrosinistra e dove il Movimento 5 stelle è crollato, ed è andata così anche in Abruzzo due settimane fa (dove il M5s ha perso 19 punti rispetto alle politiche) e lo stesso è successo a Trento e a Bolzano alla fine del 2018 e in Friuli Venezia Giulia ancora lo scorso anno.

 

Non c’è elezione che non ci faccia essere ottimisti sulla capacità di resipiscenza dell’elettorato italiano – e chissà che le varie manifestazioni di resipiscenza non suggeriscano a Salvini di andare presto alle elezioni con il vecchio centrodestra – e da qualche tempo a questa parte non c’è settimana in cui non spunti un qualche sondaggio capace di mettere di buon umore chiunque si auguri che il populismo sovranista sia solo un passaggio momentaneo della nostra contemporaneità. E così – ma lo sapete che qui quando si vuole essere ottimisti ci si accontenta di poco – succede questo.

 

Succede che in Francia prima la Tribune pubblichi un sondaggio secondo il quale il 52 per cento dei francesi pensa che i gilet gialli dovrebbero mettere fine alle loro proteste e poi che il settimanale Marianne pubblichi un altro sondaggio secondo il quale Emmanuel Macron arriverebbe in testa al secondo turno delle presidenziali, con il 56 per cento dei voti, davanti a Marine Le Pen (44 per cento), se lo scrutinio si dovesse svolgere in questi giorni.

 

Succede che in Germania prima la Bild pubblichi un sondaggio secondo il quale, per la prima volta dallo scorso ottobre, l’Spd è di nuovo il secondo partito di Germania (primo è la Cdu, seconda l’Spd, terzi i Verdi, quarto e solo quarto l’AfD) e che poi pochi giorni dopo una televisione (la “n-tv”) pubblichi un altro sondaggio da sballo secondo il quale se oggi si dovesse andare a votare in Germania il politico che avrebbe il maggior gradimento degli elettori sarebbe il successore di Angela Merkel alla Cdu: Annegret Kramp-Karrenbauer.

 

In un certo modo, lo stesso vale per la Spagna, dove si voterà a fine aprile, dove i populisti modello Podemos hanno cinque punti in meno rispetto alle elezioni del 2016 (16 per cento) e dove a puntellare i socialisti (24 per cento, due punti in più rispetto al 2016) e i popolari (23 per cento, 10 punti in meno) non ci sono i nazisti dell’Illinois (e se ci fossero in Europa Di Maio avrebbe già chiesto un’alleanza in vista delle europee), ma ci sono i populisti europeisti di Ciudadanos (al 19 per cento). Spagna, Francia e Germania, i tre paesi più popolosi d’Europa insieme con l’Italia, ci offrono ogni giorno segnali di razionalità in un contesto storico governato da scarsa razionalità – per non parlare del fatto che ieri il quotidiano tedesco Die Tageszeitung ha notato che a circa 100 giorni dal voto per il rinnovo del Parlamento europeo l’unione delle destre europee teorizzata da Steve Bannon semplicemente non esiste, e che allo stato attuale la struttura che dovrebbe coordinare i sovranisti europei, The Movement, esiste solo a livello teorico. Ma per avere qualche granello ulteriore di ottimismo rispetto ai mesi che verranno oltre ai sondaggi nazionali è utile ogni tanto farsi un giro sul sito che, in vista delle elezioni europee di fine maggio, ogni giorno mette insieme tutte le rilevazioni dei partiti del nostro continente: pollofpolls.eu. E quel sito, ogni giorno, ci ricorda che lo tsunami populista, in Europa, non c’è e non ci sarà, e che su 705 seggi da assegnare al Parlamento europeo sono circa 540 quelli che andranno a partiti non antieuropeisti ed espressamente antinazionalisti.

 

E’ quello che dicono i sondaggi ma è quello che sostiene spesso anche Mario Draghi, quando ricorda che tutti i sondaggi europei dicono che, nel complesso, in Europa i cittadini apprezzano i benefici dell’integrazione economica che l’Unione ha prodotto e che da anni considerano come il suo maggior successo la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi, cioè il mercato unico con numeri interessanti: “Il 75 per cento dei cittadini dell’area dell’euro che si dice a favore dell’euro e dell’unione monetaria e con il 71 per cento degli europei che si dice a favore della politica commerciale comune”. I numeri segnalati da Mario Draghi sembrano voler indicare la presenza in tutto il continente di una maggioranza europeista silenziosa che a fine maggio potrebbe regalarci qualche soddisfazione e che negli ultimi tempi è stata intercettata in una certa misura anche nel nostro paese – a dicembre l’Eurobarometro ha notato che la percentuale di italiani che giudica positivamente l’Ue è salita di 15 punti percentuali in un anno, facendo registrare, proprio nei mesi in cui il populismo antieuropeista è arrivato al governo, il balzo più sostanzioso all’interno di tutta l’Unione europea. Noi ottimisti, in una stagione in cui i professionisti del pessimismo hanno ottenuto il monopolio della narrazione politica, ci accontentiamo di poco e per ricercare un po’ di buon umore spesso siamo costretti a fare dei giri immensi in giro per l’Europa per poi tornare in Italia.

 

E per tornare in Italia e alle piccole elezioni sarde (hanno votato 790.709 elettori, la metà degli abitanti di Milano) ci sono almeno altri due elementi che ci permettono di osservare con ottimismo a un futuro lontano dai populismi all’amatriciana. Elemento numero uno: dal 4 marzo a oggi non c’è una sola elezione che dimostri che il bacino elettorale del governo sia in espansione (in Abruzzo la somma dei voti ottenuta da Lega e M5s è inferiore di sei punti rispetto a quella ottenuta alle politiche nella stessa regione, in Sardegna lo scarto è molto più grande, la Lega ha guadagnato due punti rispetto alle politiche, passando dal 10 per cento a poco meno del 12 per cento, ma il crollo del M5s ha portato l’area di governo a un consenso inferiore di circa 30 punti rispetto al 4 marzo). Elemento numero due: per il centrosinistra essere trainati da un politico con un baricentro spostato più a sinistra che al centro (Massimo Zedda, un Pisapia sardo che come Pisapia viene dal partito che fu di Nichi Vendola) non rappresenta in nessun modo un valore aggiunto e se chi vuole essere alternativo agli azionisti del governo del cambiamento ha intenzione di essere non irrilevante dovrà offrire al suo partito in futuro qualcosa in più di una sverniciata sandersiana per costruire un’alternativa vera.

 

Le elezioni in Sardegna ci dicono tutto questo ma ci dicono anche molto altro e ci consegnano un messaggio che, come dice giustamente oggi Giovanni Toti in un’intervista al Foglio, Matteo Salvini non potrà permettersi di non considerare: le elezioni in Abruzzo e in Sardegna dimostrano che restare immobili e non capitalizzare presto il consenso delle urne per la Lega significa fare una scelta precisa, ovvero considerare lo sfascio dell’Italia un danno del tutto collaterale rispetto alla crescita dei propri consensi. Fino a quanto potrà durare? Se fossimo ottimisti come Fitch, diremmo che la prossima legge di Stabilità non la farà questo governo. Lo scenario è difficile, ma dato che il buon ottimista deve spesso accontentarsi di poco oggi non ci resta che sperare che la realtà continui a essere quello che è stato in questi mesi in tutta Europa: un formidabile vaccino contro gli istinti suicidi delle forze antieuropee.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.