La protesta per il prezzo del latte di pecora, una decina di giorni fa in Sardegna: allevatori e pastori svuotano le cisterne del latte. Foto LaPresse

Chi piange sul latte versato

Stefano Cingolani

Ieri la questione delle quote, che è durata trent’anni, oggi la protesta dei pastori sardi. Perché cavalcare le illusioni della politica è più comodo che dar retta al mercato. E la Lega ci ricasca

“La lotta di classe si confondeva con il brigantaggio, con il ricatto, con l’assalto al municipio, era una forma di terrorismo elementare senza conseguenze stabili ed efficaci” (Antonio Gramsci, Operai e contadini, l’Ordine Nuovo 1919)


   

Bisogna piangere sul latte versato. Sì, proprio così, e piangiamo calde lacrime. Non solo perché è un insulto alla natura, una bestemmia pronunciata dall’ira plebea. Il latte non è un telefonino, un robot, un telaio come quelli distrutti dai luddisti, il latte viene prodotto da un essere vivente e il pastore se ne appropria in cambio di una manciata di erba. Dove sono gli animalisti? Michela Brambilla non si sente nemmeno turbata? La vista di quei fiumi bianchi gettati con disprezzo lungo le strade non può non offendere chiunque abbia senso morale. Ma il nostro pianto non deriva solo dal valore simbolico di quel che è stato distrutto e poteva essere destinato, invece, a un uso quanto meno sociale. Ci sono forme di lotta del passato che nel presente assumono solo un valore ricattatorio o volgarmente clientelare. E la vicenda dei pastori sardi lo dimostra. E’ una storia di quote produttive, di sovvenzioni corporative e di voto di scambio: ci sarebbe stato questo cancan senza le elezioni regionali alle porte? Il tutto viene pagato dai contribuenti, anche da chi non ama le pecore, né il loro latte e tanto meno il pecorino romano al quale è destinata la stragrande maggioranza della produzione. Un po’ come accadde con un’altra vicenda parallela, anch’essa storia di quote e di latte (vaccino in tal caso), quella che per trent’anni ha fatto la fortuna di alcuni partiti scaricando il costo su tutti gli italiani che pagano le imposte. Le quote non ci sono più dal 2015, grazie alla legge bronzea del mercato, ma dobbiamo pagare ancora 5 miliardi di euro all’Unione europea.

      

La Lega ci ricasca, non le è bastato aver fatto fallire la sua banca, la Credieuronord, anche per colpa del latte. Quando tutto comincia, Umberto Bossi aveva appena fondato la Lega autonomista lombarda e Matteo Salvini, che aveva dieci anni, ancora non frequentava nemmeno i centri sociali. Quello che diventerà il latte leghista era ancora latte democristiano. E il peccato originale ricade su Filippo Maria Pandolfi. Chi era costui? Nato a Bergamo nel 1927, cattolicissimo, figlio di un esponente del Partito popolare, resistente nel Fronte della gioventù, democristiano, pluriministro (Tesoro, Finanze, Industria, Agricoltura), commissario europeo alla Ricerca e Sviluppo, si è ritirato dalla vita politica nel 1993. Elegante e irresoluto (per questo il caustico Mario Melloni, che firmava Fortebraccio i suoi corsivi sull’Unità, lo chiamava “uomo di polsino”), cercò di farsi tutti amici con le quote latte, ma alla fine si beccò palate di letame (letteralmente, vera merda di vacca lanciata dai Cobas degli allevatori).

   


Una storia di sovvenzioni corporative e di voto di scambio: ci sarebbe stato questo cancan senza le elezioni regionali alle porte?


        

Si chiamava ancora Cee, Comunità economica europea, e produceva già dalla fine degli anni Settanta troppe tonnellate di latte, molte più di quelle che la domanda potesse assorbire, fino a un milione di tonnellate, davvero impossibili da smaltire. E mentre si accumulavano mari di latte e montagne di burro, le entrate degli allevatori, che pure godevano di sussidi europei per le esportazioni, andavano assottigliandosi. Così, nel marzo del 1984 i governi si accordarono per fissare dei limiti. Si decise di prendere come riferimento il risultato dell’anno precedente, il 1983, dividendolo per i produttori e assegnando loro una quota ciascuno. Chi avesse superato quel limite avrebbe dovuto pagare una sorta di tributo molto svantaggioso, in modo da disincentivare la sovrapproduzione. L’Italia in quegli anni produceva meno del proprio fabbisogno nazionale, al contrario della Francia, tra le prime promotrici delle quote. Gli allevamenti italiani erano per lo più piccole aziende, la raccolta dei dati e il loro monitoraggio avrebbero avuto bisogno di un’amministrazione specifica che non esisteva; manipolare le cifre, fino a falsificarle del tutto, era un gioco da ragazzi.

   

La quota italiana negoziata da Pandolfi si fermò a 9 milioni di ettolitri. Il ministro, compreso il pasticcio, rimediò alla democristiana: promise l’impunità agli allevatori che avrebbero sforato, senza per questo rimetterci un quattrino. Al loro posto, infatti, avrebbe pagato lo Stato, cioè tutti i contribuenti, compresi quelli allergici al latte che allora conteneva ancora molto grasso e abbondante lattosio. Lo stesso fece il suo successore Calogero Mannino, anche lui democristiano, tanto che nel 1997 la Corte dei conti emise una condanna per danno erariale con la quale spiegava che i due ministri avevano “volontariamente dato disposizioni nel senso di non osservare la normativa comunitaria”. Furono salvati da una sanatoria e continuò a pagare Pantalone. L’Italia sforò le quote ininterrottamente dal 1995 al 2009. E sempre si levarono alti lai contro Bruxelles e l’egoismo dei paesi del nord. Nel 2009 era ministro dell’Agricoltura Luca Zaia il quale fece il bel gesto di impedire a Equitalia di riscuotere le somme evase. Il 24 gennaio dello scorso anno l’Italia è stata condannata dal tribunale della Ue.

    


Solo un aumento della domanda e una trasformazione del mix produttivo possono cambiare la situazione. Come per le quote latte


 

Non tutto è rimasto immutato. Il tetto alla produzione è stato rivisto e rinegoziato in quelle maratone agricole che duravano notti intere prima nel 1993 poi nel 2004, insomma ogni dieci anni. L’Italia è rimasta sempre penalizzata, recita la vulgata agricola, in realtà ha ottenuto prima un aumento del 10 per cento e un piano per rateizzare le quote eluse nell’arco di 14 anni, consentendo agli allevatori di non pagare gli interessi maturati con i ritardi. Senonché lo stato italiano ha deciso di sforare anche questo. All’inizio del 2011 è stata prorogata di sei mesi la scadenza di una delle rate. Sulla carta l’obiettivo era aiutare gli allevatori in un momento di difficoltà, il risultato è che la finestra aggiuntiva è stata utilizzata solo da un migliaio di persone e per cifre inferiori ai 100 euro. In compenso la Corte europea ha condannato Roma perché ha considerato l’intervento come un altro aiuto di stato. Nel 1991-95, si calcolava che l’Italia dovesse sborsare 7.800 miliardi di lire a Bruxelles. I governi di quegli anni sono riusciti a strappare uno sconto della metà, ma comunque per rimborsare l’Ue hanno rinunciato a 1.000 miliardi di lire in fondi europei per un quadriennio. Così, ogni anno di quote sforate corrispondeva a 300-400 miliardi di lire che si sono tradotti in minori servizi ai cittadini. Alla fine la Ue ha sentenziato che non deve pagare lo stato ma chi ha violato le regole, quindi ha iniziato a chiedere di recuperare il dovuto dagli allevatori.

     

Nel 2014 la Corte dei conti italiana ha rilevato che, mentre il Tesoro aveva già pagato le multe a Bruxelles, la riscossione nei confronti degli allevatori non era ancora cominciata. La Corte europea ha condannato l’Italia perché mancano fondi: si tratta all’incirca di 1,2 miliardi di euro. Secondo le cifre riportate dalla sentenza, infatti, si dovrebbero recuperare 1,554 miliardi ma diverse centinaia di milioni sono ormai perduti per bancarotta del produttore o per annullamento del pagamento da parte dei tribunali italiani. Finora il Tesoro ha avuto indietro solo 282 milioni di euro, un quinto del dovuto, e almeno 500 milioni di sono bloccati da contenziosi giuridici. Quando era ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina aveva stimato che questo gigantesco pasticcio fosse costato 4,5 miliardi di euro. Poi è arrivata la condanna in primo grado dalla Corte Ue. In caso di un secondo deferimento alla Corte di giustizia, la sanzione porterebbe il conto ben oltre i 5 miliardi di euro.ù

    


Il peccato originale ricade sul dc Filippo Maria Pandolfi. Cercò di farsi tutti amici con le quote latte ma alla fine si beccò palate di letame


       

Le regole sulle quote latte riguardavano il più importante settore agricolo europeo: 650 mila aziende lattiero-casearie, 55 miliardi di euro di produzione totale, e il 13 per cento dei ricavi dell’agricoltura italiana. La Cee prevedeva anche un prezzo garantito per il burro e il latte, ma progressivamente il meccanismo è divenuto più flessibile: dal 2000 è stato eliminato il prezzo garantito e la Commissione è intervenuta solo nei casi di crisi in aiuto degli allevatori che tuttavia attraverso la Pac potevano ottenere aiuti specifici. Nel frattempo è entrata in campo la legge bronzea del mercato: la domanda globale di latticini è cresciuta, a partire dal 2003, del 26 per cento e l’export di oltre il 69 per cento. Così, nel 2015 il sistema delle quote è stato definitivamente abbandonato. Ci sono voluti 11 anni per preparare il passaggio, ma con l’aumento dei consumi dei paesi in via di sviluppo le quote avevano dimostrato i loro limiti: nel 2013-2014, ad esempio, mentre otto stati non rispettavano la loro quota, gli altri 20 producevano ben sotto il limite.

   

Ossessione della Prima Repubblica nel suo ciclo calante, le quote sono passate in eredità alla Seconda, alla Terza e a quante repubbliche ancora dovremo subirci. Il ministro dell’agricoltura era per definizione democristiano, poi si sono alternati Alleanza nazionale e Forza Italia con una breve incursione verde di Alfonso Pecoraro Scanio e un’altra tecnica, di un rispettato agronomo come Paolo De Castro, nel governo D’Alema (1998-2000) e Prodi II tra il 2006 e il 2008. La Lega ne prende le redini con Luca Zaia e le tiene ben strette affidandole ora a Gian Marco Centinaio, fedelissimo di Matteo Salvini. Nessun ministro è riuscito a venire a capo del gran pasticcio, ma nel frattempo gli sforatori sono diventati legislatori. Giovanni Robusti, prima leader dei Cobas, è stato eletto senatore col Carroccio. Indagato per truffa per aver organizzato un sistema di cooperative che non rispettavano le quote ed eludevano i pagamenti dei contributi, è stato condannato in primo grado, poi assolto in appello, alla fine la Cassazione decise che il processo era da rifare. Fabio Rainieri, altro leader Cobas, è stato promosso presidente della Commissione agricoltura alla Camera: anche lui fu accusato dai magistrati di avere messo in piedi un sistema di coop con lo scopo di evadere i pagamenti. Solo il suo singolo allevamento ha maturato un debito con l’Ue e quindi con lo stato italiano di 1 milione e 700 mila euro. Condannato in primo grado, è stato salvato dalla prescrizione. Ma nelle carte del suo dibattimento viene raccontato come la Credieuronord, la banca della Lega poi fallita, venisse utilizzata dagli allevatori come intermediario per evitare di pagare i contributi all’Ue. Era non solo una banca del territorio, ma a suo modo una banca di sistema, per molti versi vicina a quello che viene indicato come paradigma creditizio ottimale dalle forze nazional-populiste. Si scoprì che in realtà era il travestimento di una cassa di partito.

   


  Nessun ministro è riuscito a venire a capo del gran pasticcio, ma nel frattempo gli sforatori sono diventati legislatori


    

Il letame sulle autostrade, le mucche in piazza, i trattori a bloccare il traffico: non si sono fatti mancare nulla gli allevatori del nord-est (perché erano loro alla guida del movimento). Forme di lotta eclatanti per colpire non tanto gli sfruttatori, ma la gente comune che doveva andare a lavorare, così facevano notizia. Come il latte versato con disprezzo nichilista dai pastori sardi e, poi, per imitazione da quelli siciliani, laziali e quant’altro. Nella Sardegna che va al voto e, dopo essersi gettata in massa sui Cinque stelle s’appresta a incoronare Salvini (almeno secondo i sondaggi fatti anche per orientare gli elettori), ci sono oltre tre milioni di pecore (due ogni abitante) e appena 12 mila pastori. Dagli anni Ottanta gli ovini sono aumentati di un terzo e gli allevatori si sono ridotti grosso modo della stessa quota. E’ migliorata anche la produttività, perché le pecore sono nelle stalle e non transumano alle falde del Gennargentu, vengono munte a macchina e non più a mano. E adesso danno troppo latte per un formaggio che ha avuto il suo momento di gloria e ora perde terreno. Il pecorino romano, quello salato e piccante che si grattugia rigorosamente sui bucatini all’amatriciana, ha sfondato anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e allora fiumi di latte si sono riversati verso i caseifici laziali. Poi è crollato del 5 per cento in Europa, del 44 per cento in America, del 25 per cento in Asia. E i pastori si sono trovati nella trappola della monocoltura, senza alternative all’unico bene al quale è legata la loro produzione. Certo, ci sono il pecorino sardo e il fiore sardo, hanno ottenuto il dop e il sostegno della Ue, ma non escono da una nicchia locale. Il pecorino romano assorbe molto più latte di altre caciotte locali: 280 mila quintali contro 15 mila.

   

A guidare la protesta c’è la Coldiretti: un tempo architrave del consenso democristiano nelle campagne, è rimasta una organizzazione dalla potente influenza politica, ma sempre più s’è fatta lobby di lotta e di governo. Incalzata dai Cobas, corteggiata dalla Lega, partecipa anche lei al riallineamento: protezionista da sempre in nome e per conto dei propri associati anche se, come abbiamo visto, con le quote latte è il mercato non le barriere amministrative a proteggere i produttori, adesso fa da sponda, quando le conviene, anche al sovranismo salviniano. La Coldiretti se la prende con gli industriali, i quali hanno prodotto più del livello stabilito dal consorzio di tutela. Questi ultimi a loro volta scaricano sugli allevatori: il latte viene munto e venduto per essere lavorato, replicano, noi siamo costretti a comprarlo, e a nostra volta lo trasformiamo in formaggi, I pastori vogliono un euro a litro, la differenza rispetto al prezzo di mercato pagata dai contribuenti per continuare a produrre le stesse cose allo stesso modo. Siccome ci sono le elezioni, i partiti di governo li hanno illusi. Ma tutti sanno che solo un aumento della domanda e una trasformazione del mix produttivo possono cambiare la situazione. Come per le quote latte. E’ il mercato bellezza. Anziché alle sovvenzioni, bisognerebbe pensare all’intera filiera agro-industriale, come è accaduto in altri settori caseari o agricoli più in generale. Si pensi al vino che oggi sfida e batte quello francese non per quote e aiuti pubblici (che pure ci sono), né solo per quantità di ettolitri, ma per la qualità di un prodotto a più alto valore aggiunto. Il ministro Centinaio se ne rende conto, traspare dalle sue parole, ma prima del voto non può dire la semplice, candida verità. E questa è la politica, bellezza, non c’è governo del cambiamento che la possa cambiare.

      

Di più su questi argomenti: