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Sui migranti, la realtà respinge Salvini

Claudio Cerasa

Rimpatri che non funzionano. Tafazzismo sulla missione Sophia. Stallo sul trattato di Dublino. Aumento dei clandestini. Disimpegno in Libia. Caso Sea Watch. Cosa c’è oltre alla propaganda del Truce? Indagine su un ministro non al di sopra di ogni sospetto

Da un lato la percezione, dall’altro la realtà. Prima ancora della valutazione dell’aspetto giudiziario, la parabola politica di Matteo Salvini presenta alcuni elementi fattuali interessanti che, al netto dei migranti tenuti in ostaggio in mare come i minori della Sea Watch per i quali si è giustamente attivato il procuratore per i minorenni di Catania, ci permettono di svolgere una piccola indagine relativa ai risultati ottenuti dal ministero dell’Interno in materia di governo dell’immigrazione. Per svolgere quest’indagine non bisogna concentrarsi sulle emergenze mediatiche create dal titolare del Viminale – la storia del Salvini odiato dai magistrati è una barzelletta che potrebbe riciclare in un prossimo show su Rai 2 Beppe Grillo, magari chiedendo un parere a magistrati non ostili al salvinismo come Carmelo Zuccaro – ma bisogna avere il coraggio di valutare una questione diversa: in sette mesi di governo, il ministro ha fatto di tutto per mettere al sicuro il nostro paese da una futura e non impossibile crisi legata all’immigrazione? Il risultato di questa mini indagine ci porta a dire che sono molti i dossier sui quali l’intervento di Salvini ha contribuito non a migliorare ma a peggiorare in prospettiva i problemi dell’Italia.

 

Tre giorni fa, per cominciare, Salvini ha detto che Sophia, la missione europea di contrasto al traffico di esseri umani nel Mediterraneo, può concludersi in qualsiasi momento, avendo “come ragione di vita che tutti gli immigrati soccorsi vengano fatti sbarcare solo in Italia”. Salvini forse non lo sa, ma come è stato ricordato bene ieri da Repubblica il mandato di Sophia non prevede il salvataggio dei migranti bensì unicamente la lotta a scafisti e trafficanti d’armi e l’addestramento della Guardia costiera libica, indispensabile per fare quello a cui Salvini tra un mojito e un altro non sembra essere interessato: occuparsi di come aiutare Serraj a governare i flussi che partono dalla Libia. Colpire Sophia, dunque, non significa colpire l’Europa ma significa colpire l’Italia.

 

E lo stesso atteggiamento autolesionista Salvini lo ha messo in campo quando il governo del cambiamento si è occupato di altri dossier. Uno su tutti: la modifica del trattato di Dublino. Il trattato di Dublino, come sapete, prevede che il primo stato membro in cui viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d’asilo del rifugiato e nel contratto di governo Salvini e Di Maio hanno promesso di voler portare avanti “la revisione del Regolamento di Dublino e l’equa ripartizione dei migranti tra tutti i paesi dell’Ue”. Anche qui, l’atteggiamento avuto finora dal governo è stato controproducente. I campioni del sovranismo tendono a non ricordarlo, ma lo scorso anno il Parlamento europeo ha approvato una legge – non votata dal Movimento 5 stelle e addirittura bocciata dalla Lega – che cancella il criterio che il primo paese di accesso debba essere quello in cui il migrante presenta la richiesta d’asilo. Il problema è che alla fine di giugno il primo Consiglio europeo a cui ha partecipato il presidente Conte ha creato le condizioni per non modificare mai più quel trattato, accettando il principio imposto dai paesi di Visegrád che ogni modifica del trattato di Dublino debba essere decisa all’unanimità dei paesi dell’Unione europea (è sufficiente dunque che uno dei paesi europei amici di Salvini ponga il veto alla modifica del trattato per non modificarlo più).

 

Il tafazzismo di Salvini non è stato messo in scena solo a livello europeo ma anche a livello italiano. Il ministro dell’Interno ricorda spesso che gli sbarchi sono diminuiti del 90 per cento rispetto allo scorso anno ma dimentica di dire che il trend della diminuzione degli sbarchi è in calo costante dalla metà del 2017 e che su questo fronte il ministro non ha fatto altro che seguire per quanto possibile le politiche adottate dal governo precedente che Salvini aveva accusato, invece, di essere amico degli scafisti e dei migranti invasori. Dimentica questo e dimentica di dire anche che sul tema della lotta agli irregolari e sul tema dell’aumento dei rimpatri le sue misure non stanno funzionando a dovere.

 

In campagna elettorale, Salvini aveva promesso che avrebbe stanziato 42 milioni di euro per i rimpatri ma nel decreto sicurezza ne sono stati stanziati appena tre. Aveva promesso che avrebbe rimandato indietro nel giro di poco tempo 500 mila irregolari, ma al momento il ritmo dei rimpatri procede al ritmo di 20 al giorno e per rimandare indietro i 500 mila irregolari presenti in Italia ci vorrebbero 70 anni, più o meno il tempo concesso alla Lega dai cattivissimi e antisalviniani magistrati per restituire il malloppo di milioni che il partito del Capitano deve allo stato (80 anni). In campagna elettorale, inoltre, Salvini aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per ridurre il numero dei migranti irregolari, ma come sappiamo l’effetto del decreto sicurezza – grazie alla trasformazione in irregolari dei richiedenti asilo – sarà non far diminuire ma far aumentare i clandestini, in una misura che secondo le proiezioni Ispi dovrebbe portare il numero degli irregolari dai 500 mila di oggi ai 620 mila dei prossimi mesi. Si potrebbe andare avanti ancora a lungo, e parlare anche del disastro che rischia di creare la chiusura degli Sprar, ma questa carrellata di scelte autolesionistiche ci spinge a porci una domanda elementare: Salvini i problemi non sa come risolverli o semplicemente non li vuole risolvere? Purtroppo per l’Italia nessuna delle due risposte ci permette di dire che in sette mesi di governo il ministro abbia fatto qualcosa per mettere al sicuro il nostro paese da una futura e non impossibile crisi legata all’immigrazione. Le politiche della chiusura funzionano quando si gioca con la percezione ma diventano autolesionistiche quando dalla percezione si passa al piano più pericoloso per ogni sovranista: la realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.