Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Abbiamo le prove: Di Maio non sa nulla di economia

Luciano Capone

Sei giornalisti del Fatto non si rendono conto di un dramma politico: il ministro del Lavoro ignora concetti elementari di finanza pubblica

Fanno molto più rumore, scatenano ironia e indignazione sui social e sui giornali gli innumerevoli strafalcioni linguistico-grammaticali di Luigi Di Maio, ma le sue ripetute castronerie in ambito economico sono molto più gravi. Perché i congiuntivi sbagliati ricadono su chi li pronuncia, mentre le assurdità sui temi dell’economia vengono pagate da famiglie e imprese. Non è ammissibile che un vicepremier, che è sia ministro del Lavoro sia dello Sviluppo economico, ignori concetti elementari di finanza pubblica. Ma il silenzio generale che circonda le bestialità economico-finanziarie, a differenza dello sdegno riservato a quelle grammaticali, è anche una spiegazione della stagnazione della nostra economia.

 

Intervistato da ben sei giornalisti del Fatto quotidiano, parlando degli obiettivi di crescita a dir poco ottimistici, ieri Di Maio ha detto che: “Purtroppo la discussione con l’Europa è sul deficit e non sul livello di pil, e questo già dice molto della situazione attuale”. L’ignoranza su ciò di cui si discute in Europa è dovuta al fatto che Di Maio in Europa a negoziare non ci è mai andato, ma non è una giustificazione sufficiente. Perché tutto il negoziato sul deficit è in realtà sul rapporto deficit/pil. Pertanto è una fesseria dire che in Europa non si parla “del livello del pil”, perché quello è proprio il denominatore del rapporto di cui si discute con la Commissione. Di Maio non ha problemi solo con le divisioni, ma persino con le addizioni. 

 

Nella risposta successiva, Di Maio ripercorre le modalità con cui l’esecutivo era arrivato a fissare il deficit al 2,4 per cento in questi termini: “A settembre ci siamo visti con Conte, Tria e Salvini, credo nella sera della festa sul balcone di Chigi per il reddito di cittadinanza. E lì abbiamo fatto l’elenco delle misure fondamentali, in modo molto naturale. E il conto finale portava a una manovra del 2,4. Ma non avevamo ancora le relazioni tecniche. E così abbiamo previsto più soldi del necessario”. Così il governo avrebbe inviato a Bruxelles il Documento programmatico di Bilancio, quello che ci sta costando la possibile apertura di una procedura di infrazione, dopo aver fatto delle somme a caso. Hanno dichiarato guerra all’Europa, insultato Moscovici e dato dell’ubriacone a Juncker senza aver fatto i conti. Il capo politico del M5s ha poi spiegato meglio com’è andata a Mattino 5: “Ci sono dei soldi che ci avanzano, perché ne avevamo previsti più di quelli che ci servivano”. Insomma, il deficit eccessivo diventa così un surplus. Un capovolgimento logico che però è perfettamente coerente per un soggetto che per coprire la manovra diceva: “Attingiamo a un po’ di deficit”, come se il “deficit” fosse un pozzo di San Patrizio di risorse finanziarie a disposizione dei governanti e non debba essere coperto con tasse future.

 

In sintesi Di Maio dice che per questa manovra del popolo ha “attinto” un po’ troppo, così gli avanzano un po’ di debiti di cui non sa che farsene. Un po’ come se per l’acquisto della casa Di Maio avesse chiesto un mutuo esorbitante e ora tornasse allo sportello della banca per restituire il surplus: “Scusi direttore, ho un po’ di mutuo che mi avanza, lo rivuole indietro?”. Questa operazione ha fatto schizzare verso l’alto i tassi di interesse, ovvero il rendimento dei titoli di stato (1,5 miliardi in più in soli sei mesi). Ma qual è il problema? Per il nostro ministro dello Sviluppo economico lo spread non è un costo: “Dire che lo spread ci è già costato, quando invece il rendimento dei titoli è a 10 anni ... di che stiamo parlando?”, ha dichiarato qualche giorno fa. Nel pieno di una fibrillazione che rischia di affossare le residue speranze di crescita del paese, il nostro vicepremier è convinto che l’aumento dello spread non sia stato un costo perché “il rendimento dei titoli è a 10 anni”. Che è come se, sempre per l’acquisto della medesima casa, Di Maio avesse chiesto un mutuo trentennale nella convinzione che per trent’anni non avrebbe pagato una rata e gli interessi. Dicendo poi al direttore della banca: “Di che stiamo parlando?”, con lo stesso tono usato dalla collega di partito e viceministro dell’Economia Laura Castelli nel “questo lo dice lei!” rivolto a Pier Carlo Padoan che spiegava pazientemente l’impatto dello spread sui mutui. Si dirà che sono gaffe, come quelle di Toninelli. E proprio su questo punto Di Maio ha risposto ai giornalisti del Fatto: “Ne faccio anch’io, ma mica le facciamo apposta”. Ecco, non lo fanno apposta. Sono proprio così. E da questa confessione bisognerebbe capire che il problema non è tanto il deficit rispetto al pil, ma il deficit culturale e formativo di chi lo ha stabilito.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali