Marco Minniti, Matteo Renzi e Dario Nardella alla presentazione del libro dell'ex ministro dell'Interno (Foto LaPresse)

50 sfumature di Renzi

David Allegranti

Nuovo partito o no? Quanto pesa sul futuro del Partito democratico lo smarrimento delle truppe renziane

Roma. Per la prima volta da quando esiste il Pd e da quando Matteo Renzi è Matteo Renzi, i renziani (e le loro cinquanta sfumature) sbandano seriamente. Per la prima volta sono arrabbiati, specie quelli che sostenevano la candidatura di Marco Minniti alle primarie e ci hanno investito tempo ed energie. Il più “amareggiato” è Lorenzo Guerini, che insieme a Luca Lotti ha cercato per settimane di dissipare le indecisioni di Minniti e di aggirare le ambiguità di Renzi sul “nuovo partito”: “Adesso – dice Guerini al Foglio – ci vorrebbe responsabilità. E la capacità di farsi carico della situazione. Magari facendo qualche passo indietro per farne insieme uno avanti. Ma di generosità ne vedo poca”.

 

Di generosità ne vede poca anche Andrea Romano, che l’altro giorno su Democratica ha spiegato perché, nonostante tutti i suoi difetti, i dirigenti del Pd devono tenersi stretto il loro partito. A iniziare dal senatore di Scandicci Matteo Renzi, che invece è sul punto di mollare. La combo ritiro di Minniti/nuovo partito dell’ex segretario, da testare eventualmente alle europee, sta creando seri problemi di coscienza alle cinquanta sfumature di renziani, che a un certo punto dovranno decidere da che parte stare. È pronto a seguirlo chi naturalmente deve tutto a Renzi; l’elezione in parlamento, un ruolo pubblico.

 

C’è chi, fra i renziani, potrebbe essere disponibile ad allontanarsi dal Pd, da Luciano Nobili ad Alessia Morani. Francesco Bonifazi idem, come il resto del Giglio magico, d’altronde. Altri hanno già preso vie nuove. Tommaso Nannicini sta con Maurizio Martina, assiste con sgomento a quel che accade nel Pd, dove ormai, dice, “sfugge qualsiasi razionalità politica e individuale”. Pure Graziano Delrio, capogruppo alla Camera, sta con Martina e dice che non ha intenzione di lasciare il Pd. Paolo Gentiloni sostiene Nicola Zingaretti ed è tra coloro che potrebbero tornare in pista qualora ci fosse bisogno di un candidato presidente del Consiglio in caso di elezioni anticipate.

 

I problemi più grossi – di coscienza ma anche molto pratici –  ce li hanno i dirigenti locali e i candidati alle amministrative, che fra pochi mesi hanno le elezioni da affrontare. Non a caso ieri Dario Nardella ha subito precisato che “il mio partito si chiama Firenze” e “sono impegnato nel Pd locale perché sia unito, forte e possa crescere”. Con il centrodestra che bussa alle porte di Firenze, d’altronde, dove potrebbe andare Nardella? “Tutte le scissioni sono sempre negative, del resto la storia ci insegna che producono risultati negativi”, dice il sindaco di Firenze. Anche lui aveva sostenuto, insieme a Giorgio Gori, la candidatura di Minniti, ma adesso che l’ex ministro non c’è più fa un passo indietro:  “Non ho intenzione di occuparmi della politica nazionale. Io sono concentrato su Firenze, dove faccio il sindaco e mi preparo per proporre ai fiorentini un progetto per i prossimi cinque anni”. 

 

Di nuovo partito non vuole sentire parlare neanche il deputato Alfredo Bazoli: “Finché c’è il Pd, io sto nel Pd”, dice. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, uno dei promotori dell’appello dei sindaci a favore di Minniti, ha lanciato un appello con tanto di hashtag: #iostonelPd. “I sindaci vogliono un partito unito, aperto e riformista. No a nuovi partiti e a scissioni. 550 primi cittadini avevano chiesto l’impegno di Minniti per questo. I sindaci sono l’energia locale del Pd e vogliono unità”. Sui territori sono in difficoltà anche dirigenti di partito come Antonio Mazzeo, consigliere regionale della Toscana ed ex vicesegretario toscano, che oggi riunirà i suoi elettori a Pisa per decidere il da farsi. Certo è che, intanto, alcuni sindaci della provincia pisana che erano stati contattati per sostenere Minniti si sono già spostati su Nicola Zingaretti.

 

Stefano Ceccanti, deputato, dice che serve immediatamente una nuova candidatura: “L’eventuale crisi di governo porta con sé il rischio di un Pd che riduca le sue ambizioni, che si trasformi in un fortino della vecchia sinistra che pensi di tornare al governo come satellite del M5s? Certamente sì: portano lì, di fatto, in modo più o meno trasparente e implicito, tutte le piattaforme dei candidati residui alla segreteria, nessuno dei quali è minimamente votabile o perché le piattaforme sono chiaramente sbagliate o perché elusive”.

 

Dunque, “se la scelta fosse limitata a quelli sarebbe obiettivamente impossibile partecipare al Congresso. Ma per arginare questo rischio, che è vero e reale più di quanto non si dica, non serve né una scissione (come pare sia l’intento di Renzi a partire da un’analisi di quel pericolo, sventato a inizio legislatura) né l’impostazione deludente di Minniti (che in sostanza sembra ritirarsi perché nelle condizioni date non potrebbe vincere)”. Serve appunto una nuova candidatura. La candidatura dei renziani senza Renzi.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.