Maurizio Martina e Marco Minniti (foto LaPresse)

Il Pd discute di Pd

Salvatore Merlo

La manovra è un Ufo, la maggioranza un manicomio, ma il Partito democratico si attorciglia. Il no di Gentiloni alla segreteria

Roma. Alla Camera si discute la manovra, che è sempre di più un Ufo, un oggetto volante non identificato. Viene avvistata in commissione Bilancio, poi c’è chi giura di averla vista negli uffici legislativi, ma nessuna certezza. Così in realtà nemmeno i deputati, che pure si accapigliano, sanno bene di cosa stiano discutendo da ore. Urla, sospensioni, rinvii. Questo però avviene dentro. Nell’emiciclo. Fuori, in Transatlantico, è un altro mondo. Sono le stesse persone, ma fanno e parlano di altre cose. Ci sono quelli che si appassionano a una presunta sessione erotica consumata in bagno tra una deputata dei Cinque stelle e un leghista. E poi ci sono quelli del Pd. Ecco, loro, quelli del Pd, parlano soltanto di una cosa: del Pd. 

 

C’è Francesco Boccia (combattivo), Maurizio Martina (addolorato), Pier Luigi Bersani (sorridente, ma in quota ex, e con l’aria di “ve l’avevo detto io”). Il passo di Dario Franceschini, lungo il tappeto rosso che divide in due il grande salone di Montecitorio, è più felpato del solito. Accigliato, scuote la testa. Poi si ferma, e con aria dolente, confessa: “No, non è una cosa buona se Renzi se ne va. Con questa situazione qua, poi”. E indica la maggioranza di governo. “La frammentazione diventa un problema democratico”, sentenzia, afflitto. E chissà perché però tutti gli attribuiscono invece un umore ottimo, e anche machiavelliche – o diaboliche, fate voi – intenzioni. E’ la maledizione di Franceschini. Lui combina sempre qualche cosa, qualche manovra nell’ombra, anche quando in realtà forse non combina niente. Dice allora Fausto Raciti, che al congresso sostiene Martina (mentre Franceschini è un sostenitore di Nicola Zingaretti): “Stanno tornando a pensare ai Cinque stelle, te lo dico io”. Ah, i Cinque stelle! Il pendolo di Schopenhauer. Croce e delizia del Pd. Il gioco della margherita: m’ama non m’ama. “Senza Renzi a fare da diga, si ritorna al vecchio dubbio amletico: i grillini sono forse compagni che sbagliano?”. E allora tra i deputati, nei capannelli in cortile, nei Whatsapp e nelle mille chat, in questo clima dolcemente terminale, parte il telefono senza fili: e Mattarella, e Franceschini, e il governo di responsabilità nazionale, che succede se Lega e Cinque stelle litigano e fanno il botto? E soprattutto: noi che facciamo? Chi siamo? dove andiamo? E il congresso?

 

I cronisti esperti di Pd sono come attraversati da un rinnovato spasmo di vitalità, felicissimi di poter tornare a scrivere dell’oggetto di tutte le loro attenzioni, dopo mesi di astinenza. A un certo punto uno di loro, uno dei più bravi, si avvicina a Matteo Orfini: “Non ne potevo più di occuparmi di questi depensanti” (si presume i grillini). E Orfini, in un lampo autoironico: “Mi rendo conto, scrivere di psicopatici è molto più divertente”. Ed ecco un tema, cioè la psicopatologia della politica, o meglio la psicopatologia del centrosinistra. La manovra è un pasticcio misterioso nel quale la maggioranza si attorciglia, il reddito di cittadinanza e quota cento sono entità inafferrabili, invisibili, che pure aleggiano sul Parlamento come un incongruo spirito santo, l’opposizione potrebbe inchiodare Lega e M5s in Aula fino a lunedì e oltre, mettendo pure in difficoltà la manifestazione di Matteo Salvini, sabato a Roma. E invece… I deputati stanno come ricurvi, a rimirarsi l’ombelico. Concentrati sulle loro vicende gastriche.

 

Il dado è tratto, Renzi se ne va? “Il dado sta rotolando”, sorride Michele Anzaldi, monaco-guerriero del renzismo. E allora Graziano Delrio si avvicina ai deputati renziani, li prende sottobraccio come un pastore d’anime, prova a convertirne qualcuno, sussurra, all’incirca: “Votate Martina Votate Martina”. E un po’ fa impressione questa campagna elettorale sulle macerie, una specie di guerra combattuta in un cimitero. Debora Serracchiani quasi esulta, “si fa chiarezza”, dice. Boccia invece si abbandona: “Ma vada dove cavolo vuole, Renzi. Secondo voi si può mai parlare con uno che o è lui il capo o non esiste nulla? Se ne vada, meglio così. Magari ritorna il centrosinistra”. Chissà. Luca Lotti, il braccio destro e sinistro di Renzi, intanto ripete solo due parole, con un certo automatismo meccanico: “Io resto”. Poi infatti, insieme a Lorenzo Guerini, l’altro scudiero, corre e telefona a Paolo Gentiloni: Paolo salvaci tu, candidati alla segreteria, costruiamo una candidatura unitaria. Ma Gentiloni non ci pensa nemmeno. “Manco morto”, gli dice, o qualcosa del genere. D’altra parte l’accoglienza non sarebbe delle migliori. “Gentiloni? Unitario? Mi sembra che Gentiloni si sia schierato con Zingaretti”, dice Matteo Mauri, deputato milanese, mentre indica il suo amico Maurizio Martina, che intanto, sprofondato su un divanetto, fa finta di nulla spippolando con il cellulare. “Ecco lui è uno che ha sempre lavorato davvero per l’unità del partito”. Allora d’improvviso s’avanza l’idea: si candidi Guerini! Si candidi Guerini! Intanto però, tutt’intorno al Pd che ormai non vede più a un palmo dal naso, chi non si agita alla ricerca della manovra fantasma, s’attorciglia invece intorno al fatto veramente importante del giorno: “Ma davvero i due deputati hanno scopato al quarto piano?”.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.