Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

La parola che serve contro la gara di rutti tra Salvini e Di Maio

Claudio Cerasa

Di Maio chiama gli avversari “terroristi” e “assassini”. Salvini gioca con lo straniero “infame” e dà dell’ubriaco al presidente della Commissione europea. Appello per non restare senza parole di fronte al linguaggio dello sfascio

C’è un fatto politico sconvolgente, diventato purtroppo ordinario, che da qualche mese a questa parte scandisce le giornate del governo del cambiamento. E’ un fatto politico che per una volta, almeno apparentemente, prescinde dalle pazzie economiche, dagli istinti antieuropeisti, dalle velleità sfasciste e che riguarda un terreno difficile da affrontare senza una chiave di lettura di carattere moralista: il linguaggio della paura. Oggi vi descriviamo il tema provando a mettere insieme alcuni messaggi inviati ai propri elettori da Matteo Salvini e da Luigi Di Maio. Messaggi che ci dimostrano ancora una volta, e da una prospettiva differente, che la romanizzazione dei barbari, e la trasformazione in moderati dei populisti, è un qualcosa che semplicemente non sta avvenendo, perché la competizione tra due populismi, purtroppo per l’Italia, sta producendo un’escalation di estremismo. L’estremismo, almeno per il momento, lo si trova al livello del linguaggio. Ma se è vero, come diceva Ludwig Wittgenstein, che “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, il mondo disegnato dal linguaggio populista è un mondo che comincia a fare paura. Prendete carta e penna e segnatevi queste frasi. La prima frase che ci ha colpito è quella usata dal portavoce del presidente del Consiglio, Rocco Casalino.

  

E’ il 22 settembre e alcuni giornali, tra cui il Foglio, danno conto ai propri lettori di una frase choc consegnata dal portavoce del premier ad alcuni cronisti: i tecnici del Mef, “o ci trovano i 10 miliardi per il reddito di cittadinanza o dedicheremo il 2019 a far fuori tutti questi pezzi merda”. Pezzi di merda. Piuttosto che scusarsi, cospargendosi il capo di cenere, il partito di riferimento di Rocco Casalino, il Movimento 5 stelle, sceglie invece di difendere le parole di Casalino pubblicando il seguente post: “Siamo assolutamente convinti (ed è sotto gli occhi di tutti) che nei ministeri c’è chi ci rema pesantemente contro… La spalla di questi uomini del sistema sono i giornali del sistema. Difendono tutti gli stessi interessi: i loro. Il MoVimento 5 Stelle difende quelli dei cittadini”.

 

Passano pochi giorni e arriviamo al 25 settembre. Stavolta a parlare è direttamente Luigi Di Maio: “Sia dannato il giorno in cui venne fatto il Jobs Act. Chi lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico”. In un paese dove chi ha provato a riformare il mercato del lavoro ha spesso pagato con il sangue il prezzo delle proprie idee – Di Maio dovrebbe conoscere le storie di Ezio Tarantelli, Antonio Da Empoli, Marco Biagi, Gino Giugni e Massimo D’Antona – il ministro del Lavoro arriva invece a criminalizzare i suoi avversari politici, e a legittimare questo metodo, dando esplicitamente a uno di questi, Matteo Renzi, dell’assassino. Niente male. Ma andiamo ancora avanti. Arriviamo al 27 settembre. Stavolta tocca a Matteo Salvini. Nel casertano, la polizia arresta il quarto componente di una banda che ha rapinato e aggredito due coniugi in una villa a Lanciano, in provincia di Chieti, e di fronte alla notizia che l’arrestato, come il resto della banda, è di nazionalità romena il ministro dell’Interno scrive su Twitter le seguenti parole. “Preso anche il quarto rapinatore straniero infame”. Un ministro dell’Interno, che gioca con gli stranieri con la stessa disinvoltura con cui gioca con i conti dell’Italia, sceglie di mettere una accanto all’altra due parole chiave. Straniero. Infame. Tutto normale? Passano pochi giorni, il governo trova un accordo sullo sforamento del deficit, Di Maio, insieme con i ministri del Movimento 5 stelle, sale sul balcone di Palazzo Chigi e poche ore dopo, in diretta tv, dirà che “da lì, da quel balcone, per tanti e tanti anni, si sono affacciati gli aguzzini del popolo italiano”.

 

Aguzzini. Cioè boia. Cioè oppressori. Cioè esecutori di condanne a morte. Tutto normale? Passano poche ore e Di Maio alza ancora di più l’asticella della sua creatività sfascista. La manovra non piace, la credibilità dell’Italia va in sofferenza, i mercati sono in movimento, lo spread schizza e il vicepremier non si tiene più. Prima dice che il Pd e Forza Italia “con i loro giornali creano terrorismo mediatico per far schizzare lo spread”. Poi insiste dicendo che “qualche istituzione europea gioca con le sue dichiarazioni a fare terrorismo sui mercati”. Passano ancora poche ore e Salvini, per rincorrere il suo vicino di banco a Palazzo Chigi, sceglie di dare dell’ubriaco al presidente della Commissione europea, dicendo, non si sa se con un mojito in mano, di voler parlare “solo con persone sobrie”. Non soddisfatto, il 2 ottobre il ministro dell’Interno, una volta venuto a conoscenza dell’arresto del sindaco di Riace per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sceglie di non ripetere le frasi oscene già usate contro i magistrati nel giorno in cui è stato indagato per il caso Diciotti (“Io sono stato eletto, i pm no”) ed esulta sui social network diffondendo ovunque immagini del sindaco Lucano con Roberto Saviano e dando di gomito così ai suoi elettori: “Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati”. Poche ore dopo l’arresto, tre quarti dei capi di imputazione vengono smontati dal giudice per le indagini preliminari ma a quel punto il garantista Salvini è impegnato a insultare ancora la Commissione europea e tra un tweet e un altro si dimentica di commentare la condanna a dodici anni di carcere per strage, porto abusivo d’armi, danneggiamenti con l’aggravante dell’odio razziale inflitta in primo grado a un militante della Lega di nome Luca Traini. Un ministro dell’Interno che esulta per l’arresto senza prove di un suo avversario politico e che non condanna esplicitamente un militante del suo partito condannato in primo grado per tentata strage con l’aggravante di odio razziale. Tutto normale? Tutto normale.

 

Ci sarebbe molto altro da raccontare sul delirio populista se volessimo andare di qualche altro giorno indietro nel tempo. Ma ci limitiamo a commentare solo questo flusso di parole per provare a mettere insieme un piccolo commento. Che cosa si può dire sulla gara di rutti tra Salvini e Di Maio? Si può dire che chi pensava che i populisti al governo sarebbero diventati moderati, a oggi ha già perso la sua scommessa. Si può dire che chi pensava che Salvini e Di Maio avrebbero scelto dai banchi di governo un approccio diverso rispetto a quello scelto dai concorrenti dei reality show per vincere il televoto, a oggi ha già perso la sua scommessa. Si può dire che giocare con gli insulti e con il turpiloquio è preoccupante non per questioni di carattere educativo ma per problemi di carattere politico, perché è la spia di una tendenza a giocare costantemente con gli alibi (gli stranieri infami, gli assassini politici, i terroristi europei) per nascondere la propria incapacità a risolvere i problemi del proprio paese. Si può dire questo e molto altro, e si potrebbe dire che la ricerca costante dell’alibi è una caratteristica del “presentismo”, di chi si concentra cioè solo sul televoto del presente dimenticando la storia del proprio paese e rinunciando a occuparsi del futuro della propria nazione. Ma di fronte alla forza delle male parole usate dai populisti, e di fronte al rischio di alimentare ogni giorno un’idea estremista, esiste anche un altro problema che riguarda coloro che dovrebbero provare a opporsi al linguaggio dello sfascio sovranista. E qui il problema potrebbe essere così sintetizzabile: l’egemonia esercitata dai populisti sul linguaggio della politica ha la forza di lasciare gli avversari senza parole. Si può ironizzare quanto si vuole sulle modalità truci del governo ma il fatto su cui occorrerebbe riflettere è che i populisti hanno dei messaggi tanto pericolosi quanto chiari che riescono a imporre. Hanno dei sogni che hanno scelto di difendere con i denti. Per chi invece considera quei sogni come degli incubi il problema è esattamente quello che abbiamo descritto: essere senza parole. Prima ancora di riflettere su chi dovrà essere un giorno a guidare il fronte antisfascista vale dunque la pena ripartire da qui. Dalle parole giuste per inquadrare il problema e dalle parole giuste per dimostrare che quello che i populisti considerano un sogno, distruggere l’Europa, sfasciare i conti del paese, far saltare l’Euro, rimettere in discussione la scienza, stravolgere la natura della nostra democrazia, per noi invece è un incubo. Per noi la parola giusta da contrapporre all’oscurantismo populista è una ed è libertà. Per scriverci la vostra parola, la parola su cui costruire un’alternativa alla politica dello sfascio, scriveteci qui: [email protected]

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.